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— Non sono dipinti — disse Robin.

— Non… — Sulla fronte le comparvero alcune rughe vere. — Cos’è, un nuovo procedimento? Sono af-fa-scinata!

— In realtà, è un processo molto vecchio. Tatuaggio. Si prende uno spillo e si infila nella pelle il colore.

— Deve fare male.

Robin alzò le spalle. Faceva male, certo, ma non c’era molto labra da guadagnare, a parlarne. Si piangeva e si urlava durante il procedimento, ma poi non se ne parlava più.

— Mi chiamo Trini, detto per inciso. Come fai, per togliertelo?

— Piacere, Robin, che il sacro flusso ci unisca — disse lei, presentandosi a sua volta. Spiegò: — Non te lo togli mai. I tatuaggi durano tutta la vita. Puoi correggerli un poco, ma il disegno resta sempre quello.

— Che… voglio dire, non ti pare una cosa un po’ troppo inflessibile? A me, come a tutti, piace tenermi per tre o quattro giorni una pittura da pelle, ma poi mi stufo.

Robin alzò di nuovo le spalle, un po’ annoiata. All’inizio, le era parso che quella donna volesse fare l’amore, ma ora aveva l’impressione che desiderasse soltanto chiacchierare.

— Naturalmente, prima di farti fare un tatuaggio, ci pensi bene. — Allungò il collo per leggere il menu sulla parete, chiedendosi se aveva ancora posto per un piatto chiamato «crauti».

— Vedo che la pelle resta perfettamente liscia — disse Trini, passando delicatamente la punta delle dita sulla spira di serpente che si avvolgeva intorno al seno sinistro di Robin. Poi abbassò la mano e gliela appoggiò leggermente sulla coscia.

Robin guardò la mano, un po’ infastidita dal fatto di non capire bene i segnali di quella donna penista. Provò a guardarla in faccia, ma anche la faccia era indecifrabile. Trini era troppo esperta nell’ostentare indifferenza, si disse Robin, ma non si sa mai: tentar non nuoce. Si dovette sollevare leggermente, per appoggiarle la mano sulla spalla. Poi la baciò sulle labbra. Quando si tirò indietro, vide che Trini sorrideva.

— Che lavoro fai, allora? — Robin si sporse di lato per aspirare un «tiro» dalla sigaretta drogata che Trini le porgeva, poi tornò ad appoggiarsi sui gomiti. Erano stese fianco a fianco, e si guardavano negli occhi. Tra i capelli spettinati di Trini si scorgeva il chiarore della finestra aperta.

— Prostituta.

— Cosa vuol dire?

Trini scoppiò a ridere. Anche Robin rise con lei, ma smise molto prima.

— Dove diavolo sei vissuta finora? No, non c’è bisogno di dirlo, lo so già. Rinchiusa in quella grossa scatola di latta che sta nel cielo. Davvero non lo sai?

— Se l’avessi saputo, non te l’avrei chiesto. — Robin era di nuovo seccata, perché non amava fare la figura dell’ignorante. Lo sguardo le cadde sul polpaccio di Trini, e lo sfiorò con le dita, distrattamente. Trini si depilava le gambe, per certi suoi misteriosi motivi, ma non gli avambracci. Robin invece si depilava in tutte le zone dove aveva un tatuaggio, ossia braccio sinistro e gamba destra, parte del pube, e un grosso cerchio dietro l’orecchio sinistro.

— Scusa, la chiamano la professione più antica. Fornisco piacere sessuale a pagamento.

— Vendi il tuo corpo?

Trini rise. — Che idea! Io vendo un servizio. Sono una lavoratrice specializzata, con apposito diploma.

Robin si mise a sedere sul letto. — Adesso ricordo. Sei una puttana.

— Non più. Adesso sono indipendente.

Robin ammise di non capire. Il concetto di vendere le proprie prestazioni sessuali non le era nuovo, ma incontrava difficoltà nell’inserirlo entro una prospettiva economica più vasta. A quanto ne sapeva lei, da qualche parte doveva anche esserci la figura dello schiavista: il losco personaggio che possedeva le donne e ne vendeva il corpo ai maschi meno ricchi di lui.

— Qui dobbiamo intenderci sui termini. Tu dici «puttana» come se fosse la stessa cosa di «prostituta». E forse lo erano, in passato. Puoi lavorare per mezzo di un’agenzia o in una casa di appuntamento, e allora sei una puttana. Oppure puoi essere indipendente, e allora sei una cortigiana. Sulla Terra, naturalmente. Qui non ci sono leggi, e ciascuno fa per sé.

Robin cercò di capire, ma non ci riuscì. Da come lei si immaginava la società penista, il fatto che Trini si tenesse il denaro non rientrava nel quadro. Infatti, significava che il corpo da lei messo in vendita era sua proprietà, mentre invece, naturalmente, agli occhi degli uomini non lo era affatto. Era certa che nelle parole di Trini ci fosse una contraddizione, ma era troppo stanca per pensarci in quel momento. Comunque, una cosa le pareva chiara.

— Quanto ti devo, allora?

Trini rimase a bocca aperta. — Hai creduto… oh, no, Robin. Questo l’ho fatto per me. Fare l’amore con gli uomini è il mio lavoro, è quello che mi dà da vivere. Ma faccio l’amore con le donne perché mi piace. Sai, sono lesbica. — Per la prima volta, Trini parve leggermente imbarazzata. — Credo di sapere cosa stai pensando. Perché una donna che non ama gli uomini si guadagna da vivere avendo rapporti sessuali con loro? È una cosa un po’…

— No, non pensavo affatto a questo. La frase che hai detto prima è la prima cosa sensata che ti sento dire. Lo capisco perfettamente, e vedo che ti vergogni della tua schiavitù penista. Ma che cos’è una lesbica?

7

Un armonioso paradiso

Chris affittò un titanide per farsi portare in un luogo chiamato Casa del Vento, da dove, a quanto gli avevano detto, si poteva prendere un ascensore che saliva al mozzo centrale di Gea. Il titanide era una femmina pezzata, con una lunga criniera azzurra e bianca, che si chiamava Nacchere (Duetto Lidio Diesis) Blues, e Chris continuava a essere di pessimo umore. La titanide parlava un po’ di inglese, e all’inizio cercò di fare conversazione, ma Chris rispose a monosillabi, e lei passò tutto il tempo del viaggio a far pratica con il suo corno d’ottone, lanciata al galoppo.

Dopo che si furono lasciati alle spalle Titantown, Chris cominciò a interessarsi maggiormente del viaggio. La titanide galoppava senza scosse, liscia come un hovercraft. Superarono basse montagnole brune e per qualche tempo seguirono la direzione di un rapido tributario dell’Ofione. Poi il territorio cominciò a salire, in direzione dell’imponente Casa del Vento.

Gea era come un ponte sospeso, a parte la sua forma ad anello. Il mozzo serviva da ancora, contro la forza centrifuga. Lungo i suoi raggi correvano i novantasei cavi che collegavano al mozzo le piastre resistenti della circonferenza, invisibili perché sepolte sotto un alto strato di terra. I cavi avevano il diametro di cinque chilometri, ed erano composti di centinaia di «trefoli» vuoti all’interno, intrecciati tra loro. All’interno circolavano i vari liquidi di riscaldamento e di raffreddamento, e le arterie per il trasporto delle sostanze nutritizie. Una parte dei cavi scendeva verticalmente nel terreno, ma gli altri uscivano dalle grandi imboccature a campana dei raggi, in alto, e scendevano ad angolo, attraversando prima una delle zone crepuscolari, per poi finire ad ancorarsi in una delle aree illuminate.

La Casa del Vento era il luogo dove, sul continente di Iperione, si ancorava uno dei cavi inclinati. Sembrava che dall’oscurità fosse uscito un lungo braccio, che avesse afferrato il terreno con la sua mano, che lo avesse stritolato fino a produrre un grosso mucchio di frammenti, e che poi se ne fosse rimasto lì, immobile, affondato nella terra. Nel dedalo di avvallamenti e di macigni erratici soffiava un forte vento, dovuto all’aria che veniva aspirata e portata verso l’alto: sarebbe poi fuoriuscita nel mozzo e sarebbe ritornata alla periferia di Gea passando lungo i raggi. Era il millenario sistema di condizionamento di Gea, e serviva a fare in modo che lungo tutta la colonna di aria dei raggi, alta 600 chilometri, ci fosse una percentuale respirabile di ossigeno. Quel flusso di aria era anche la strada tradizionalmente seguita dagli angeli per risalire, ma Nacchere e Chris non erano diretti verso di essa, perché l’ascensore si trovava dall’altra parte del cavo.

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