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«Non prendertela.» Anawak si passò una mano sugli occhi. «Siamo due idioti.»

«Tu sei il più idiota dei due. Questa maschera arriva dal HuupaKanum del capo Jones. Tu non hai idea di cosa sia, vero? Te lo dico io. Il HuupaKanum è una scatola, dove si conservano maschere, ornamenti per la testa, oggetti cerimoniali e così via. Ma non è tutto. Nel HuupuKanum ci sono i diritti ereditati degli haiviih e dei chaachaabat, dei capi. L'HuupaKanum documenta il loro territorio, la loro identità storica, i loro diritti ereditari. Dice agli altri chi sei e da dove vieni.» Si voltò. «Uno come me non potrebbe mai entrare in possesso di un HuupaKanum. Tu sì. Tu potresti essere orgoglioso. Ma rinneghi quello che sei e le tue origini. Io devo portare la responsabilità del popolo cui sento di appartenere. Tu appartieni a un popolo, ma l'hai abbandonato! Mi accusi di non essere autentico. Non potrò mai esserlo, ma lotto per conquistarmi un pezzo di autenticità. Tu, invece, sei autentico, però non vuoi essere quello che sei, e non sei quello che vuoi essere. Hai detto che sembro uscito da un western di serie Z… È vero, ma almeno questa è la professione di un certo modo di vivere. Quando ti chiedono se sei un makah, tu sobbalzi.»

«Come fai a saperlo…? Ah, certo. Alicia. È stata qui.»

«Non rimproverarla», disse Greywolf. «A te non ha osato domandarlo una seconda volta.»

«Cosa le hai raccontato?»

«Non le ho raccontato niente, maledetto vigliacco che non sei altro. Vuoi venire a raccontare a me che cos'è la responsabilità? Vieni qui e osi spiattellarmi quelle idiozie sulla patria interiore, che non dipende dai genitori ma da noi stessi? Proprio tu? Leon, forse la mia vita sarà ridicola, ma tu… tu sei già morto.»

Anawak rifletté. «Sì», disse poi lentamente. «Hai ragione.»

«Io ho ragione?»

Anawak si alzò. «Sì. Ti ringrazio ancora per avermi salvato la vita. Hai ragione.»

«Ehi, aspetta», Greywolf sbatteva le palpebre, nervoso. «Cosa… cos'hai intenzione di fare?»

«Vado.»

«Così? Hmm. Ma sì, Leon, io… Cioè, che tu sei già morto, io non… Maledizione, non volevo ferirti, io… Al diavolo, non stare lì in piedi, siediti.»

«Perché?»

«La tua… Coca-Cola! Non hai finito di berla.»

Anawak sospirò, rassegnato. Si risedette, prese la lattina e bevve. Greywolf lo guardò, gli passò davanti e si lasciò di nuovo sprofondare sul sofà.

«Com'è davvero la storia di quel bambino?» chiese Anawak. «Pare che tu gli sia proprio entrato nel cuore.»

«Quello che abbiamo preso sulla nave?»

«Sì.»

«Cosa vuoi che sia? Aveva paura. Mi sono occupato di lui.»

«Tutto lì?»

«Certo.»

Anawak sorrise. «A dire la verità, ho avuto l'impressione che tu volessi finire a ogni costo sui giornali.»

Per un attimo, Greywolf sembrò seccato. Poi rispose al sorriso. «Certo che volevo finire sui giornali. Mi arrapa finire sui giornali. Qualcuno ci riesce, qualcun altro no.»

«L''eroe di Tofino'.»

«E allora? È fantastico! Persone assolutamente sconosciute mi hanno dato pacche sulle spalle. Non tutti possono far parlare di sé con esperimenti pionieristici sui mammiferi marini. Si prende quello che si può.»

Anawak finì la sua bibita. «E come va la tua… ehm… organizzazione?»

«La Seaguard?»

«Sì.»

«In malora. Dopo che metà dei membri ha perso la vita durante l'aggressione delle balene, l'altra metà si è dispersa al vento.» Greywolf aggrottò la fronte. Sembrava quasi che stesse ascoltando una voce dentro di sé. Poi tornò a posare lo sguardo su Anawak. «Leon, sai qual è il problema della nostra epoca? Gli uomini perdono importanza. Tutti sono sostituibili. Non ci sono più ideali e senza ideali non c'è nulla che ci possa rendere più grandi di quello che siamo. Ciascuno cerca disperatamente la prova che il mondo senza di lui sarebbe un po' diverso. Io ho fatto qualcosa per quel bambino. Forse era una cosa priva di senso. Forse mi ha dato un po' d'importanza.»

Anawak annuì lentamente. «Sì. Te l'ha data senz'altro.»

Zona portuale, Vancouver

Poche ore dopo la visita a Greywolf, Anawak guardava il molo alla luce del tramonto.

Deserto.

Come tutti i porti del mondo, anche quello di Vancouver era un cosmo autonomo di dimensioni enormi in cui sembrava non mancare nulla, se non la possibilità di orientarsi.

Alle spalle di Anawak c'era il deposito dei container con le montagne spigolose delle casse dai colori irreali. Gru ferme si stagliavano contro il cielo blu argenteo della sera. I profili dei cargo per le automobili si delineavano come gigantesche scatole da scarpe. E poi navi portacontainer, cargo ed eleganti navi frigorifero bianche. Alla sua destra, si allineavano i magazzini. Un po' più avanti vedeva tubature che scorrevano l'una sull'altra, lamiere e parti di sistemi idraulici. Ancora più avanti iniziava la zona dei bacini di carenaggio e, oltre, c'era quella dei bacini galleggianti. La brezza portava fin là l'odore delle vernici.

Evidentemente si stava avvicinando alla meta.

Senza un'automobile, in quel luogo si era perduti. Anawak aveva dovuto chiedere ad alcune persone e per un bel pezzo aveva fatto domande vaghe, perché non riusciva a definire l'oggetto della sua ricerca. Gli avevano detto dove si trovavano i bacini galleggianti perché da lì doveva prendere le mosse per trovare quello che cercava. Nel porto di Vancouver c'erano bacini di tutte le dimensioni, compreso il secondo più grande bacino galleggiante del mondo, capace di sollevare oltre cinquantamila tonnellate. Ma, con sua grande sorpresa, quando le domande erano diventate più precise, Anawak era stato indirizzato al bacino di carenaggio, la darsena artificiale che veniva chiusa per mezzo di paratie prima che l'acqua fosse pompata fuori. Dopo aver sbagliato per due volte la strada, finalmente arrivò alla meta. Parcheggiò la macchina sotto un edificio molto alto, si mise in spalla la sacca sportiva strapiena e si mosse lungo la recinzione, finché non trovò una porta scorrevole leggermente aperta. Da lì scivolò all'interno.

Davanti a lui c'era un'area acciottolata, circondata da baracche. Subito dopo, sembrava che, dal terreno, salissero le sovrastrutture di una gigantesca nave. La Barrier Queen. Si trovava in un bacino lungo almeno duecentocinquanta metri. Ai lati si levavano gru su rotaie. La zona era illuminata da potenti riflettori. In giro non si vedeva nessuno.

Mentre osservava attentamente lo spiazzo illuminato, Anawak si chiedeva se quello che si accingeva a fare non fosse inutile. La barca era in secca da settimane; probabilmente le incrostazioni erano state tolte e, con esse, tutto ciò che vi era nascosto dentro. Eventuali residui negli interstizi e nelle fessure dovevano essersi seccati ormai da tempo. Della cosa nascosta tra i mitili non era sicuramente rimasto nulla. In fondo, lui non sapeva cosa voleva ottenere dall'ispezione alla Barrier Queen. Era un tentativo fondato sulla fortuna, su una vaga speranza. Se avesse trovato qualcosa che potesse essere utile al laboratorio di Nanaimo, l'avrebbe preso con sé. Se invece non avesse trovato niente, avrebbe sacrificato una sera all'avventura.

La «cosa» dello scafo.

Era piccola, grande al massimo come una razza o una seppia. L'organismo aveva emesso una luce a lampi. Lo facevano molti abitanti del mare: cefalopodi, meduse, pesci degli abissi… Tuttavia Anawak era convinto di aver rivisto quel lampo quando aveva osservato con Ford le riprese dell'URA. La nuvola luminosa era molto più grande della «cosa», ma quello che era avvenuto al suo interno gli aveva ricordato in maniera sorprendente l'esperienza fatta sotto lo scafo della Barrier Queen. Se si trattava davvero della stessa forma di vita, allora la faccenda si faceva emozionante. Perché la sostanza nella testa delle balene, la materia sullo scafo della nave e l'essere che era fuggito sembravano identici.

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