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Per un momento fu tentato di guardarsi intorno. Continuava a chiedersi perché fosse lì. Quella casa lo risucchiava in un buco temporale, verso un passato che lui non era sicuro di voler rivivere.

Fissò una grande maschera che sembrava tenere d'occhio tutta la stanza.

La maschera lo guardava.

Si avvicinò. Molte maschere indiane avevano i tratti somatici simbolicamente portati all'eccesso: occhi enormi, sopracciglia oltremodo arcuate, nasi a becco. Quella era la fedele immagine di un volto umano. Mostrava il viso tranquillo di un giovane col naso dritto, con le labbra tonde e piene e la fronte alta. I capelli erano infeltriti, ma sembravano veri. Se si prescindeva dal fatto che le pupille erano bucate, in modo che chi la portava potesse vedere, gli occhi col bulbo dipinto di bianco apparivano sorprendentemente vivi. Guardavano tranquilli e severi, quasi come in trance.

Anawak rimase immobile davanti alla maschera. Ne aveva visti a bizzeffe, di quegli oggetti. Le tribù le preparavano con legno di cedro, corteccia e cuoio e si potevano comprare in qualsiasi negozio di souvenir. Ma una maschera del genere non si trovava nei negozi di souvenir.

«È dei pacheedaht.»

Si girò. Greywolf era proprio dietro di lui.

«Per uno che 'vuol essere un indiano' sei bravo ad avvicinarti di soppiatto», disse Anawak.

«Grazie.» Greywolf sorrise. Non sembrava seccato per quella visita inattesa. «Non posso restituirti il complimento. Per essere un indiano completo sei una vera schiappa. Probabilmente avrei potuto farti fuori e non te ne saresti neppure accorto.»

«Da quanto tempo mi stai dietro?»

«Sono appena entrato. Non faccio giochetti, dovresti saperlo.» Greywolf fece un passo indietro e fissò Anawak come se si fosse reso conto soltanto in quel momento che non l'aveva invitato. «A proposito, che vuoi?»

Bella domanda, pensò Anawak. Involontariamente girò il capo verso la maschera, come se quella potesse parlare al suo posto.

«Hai detto che è dei pacheedaht?»

«Non sai neppure questo?» Greywolf sospirò e scosse la testa, indulgente. Onde lucenti gli percorsero i lunghi capelli. «I pacheedaht…»

«Lo so chi sono i pacheedaht», disse Anawak, seccato. Il territorio di quella piccola tribù nootka era a sud di Vancouver Island, al di sopra di Victoria. «M'interessa la maschera. Sembra antica. Non come la paccottiglia che vendono ai turisti.»

«È una copia.» Greywolf gli si avvicinò. Anziché il sudicio abito di pelle, portava jeans e una camicia scolorita, i cui disegni a quadri erano appena riconoscibili. Fece scorrere le dita sul profilo del volto di legno di cedro. «È la maschera di un antenato. L'originale è custodito dalla famiglia Queesto nel suo HuupuKanum. Ti devo spiegare che cos'è un HuupuKanum

«No.» Anawak conosceva la parola, ma non sapeva esattamente che cosa significasse. Un qualche rituale. «Un regalo?»

«L'ho fatta io», disse Greywolf. Si girò. «Vuoi bere qualcosa?»

Anawak fissò la maschera. «L'hai…»

«Nell'ultimo periodo ho intagliato parecchia roba. Una nuova passione. I Queesto non hanno nulla in contrario se copio le loro maschere. Vuoi qualcosa da bere o no?»

Anawak si girò. «No.»

«Allora, che cosa ti porta qui?»

«Volevo ringraziarti.»

Greywolf si lasciò cadere sul bordo del sofà e s'immobilizzò come un animale pronto al balzo. «Per che cosa?»

«Ti devo la vita.»

«Oh! Per quello! Pensavo che non te ne fossi accorto.» Greywolf scrollò le spalle. «Di niente. C'è altro?»

Anawak era rimasto in mezzo alla stanza, sconcertato. Per settimane era stato oppresso da quel pensiero, e adesso era fatta. Grazie, prego. In fondo ora poteva andarsene. Aveva fatto quello che doveva. «Cos'hai da bere?» chiese invece.

«Birra o Coca-Cola. La settimana scorsa, la ghiacciaia ha tirato le cuoia. È stato difficile tirare avanti. Ma adesso funziona.»

«Va bene. Una Coca-Cola.»

D'un tratto, Anawak si accorse che il gigante era insicuro. Greywolf lo fissava come se non sapesse come procedere. Indicò il piccolo frigorifero vicino al fornello. «Serviti pure. Per me una birra.»

Anawak annuì. Aprì il frigorifero e prese due lattine. Un po' irrigidito, si accomodò di fronte a Greywolf, su una delle sedie di vimini.

Bevvero entrambi e, per un po', nessuno dei due parlò.

«Allora, Leon?»

«Io…» Anawak rigirò la lattina tra le mani. Poi la posò. «Ascolta, Jack, parlo sul serio. Sarei dovuto venire molto tempo prima. Mi hai ripescato dall'acqua e… Ma sì, sai che cosa penso delle tue azioni e delle tue pose da indiano. Non posso negare di essere stato maledettamente arrabbiato con te. Ma questo è un altro paio di maniche. Senza di te, molte persone non sarebbero più in vita. Questo è molto più importante e… sono venuto per dirtelo. Ti chiamano l''eroe di Tofino' e credo che, in un certo modo, tu lo sia davvero.»

«Stai parlando sul serio?»

«Sì.»

Calò di nuovo un lungo silenzio.

«Tu sostieni che le mie sono pose da indiano… Invece è qualcosa in cui io credo. Te lo devo spiegare?»

In altre circostanze, dopo quelle parole la conversazione sarebbe immediatamente finita. Anawak si sarebbe innervosito e Greywolf gli avrebbe urlato qualche insulto… No, anzi: sarebbe stato Anawak a insultare Jack per primo.

«Va bene», sospirò. «Spiegamelo.»

Greywolf lo guardò a lungo. «Ho un popolo cui appartengo. Ne ho scelto uno.»

«Oh, fantastico. Te ne sei scelto uno.»

«Sì.»

«E ti hanno scelto anche loro?»

«Non lo so.»

«Se posso dirtelo, sei il fenomeno da baraccone del tuo popolo. Oppure il personaggio di un western di serie Z. E che ne dice il tuo popolo? Pensa che tu gli stia facendo un piacere?»

«Il mio compito non è fare un piacere a qualcuno.»

«E invece sì. Se vuoi appartenere a un popolo, ti assumi la responsabilità dell'appartenenza davanti a quel popolo. È così.»

«Lui mi accetta. Non voglio nulla di più.»

«Ti prende in giro, Jack!» Anawak si chinò in avanti. «Non lo capisci? Hai raccolto intorno a te un manipolo di falliti. In mezzo a loro ci sarà pure qualche indiano, ma di quelli con cui il tuo popolo non vuole avere nulla a che fare. Nessuno capisce perché lo fai. Non lo capisco nemmeno io. Tu non sei un indiano… Al massimo lo sei al venticinque per cento, il resto è bianco e prevalentemente irlandese. Perché non senti di appartenere agli irlandesi? Almeno il nome sarebbe appropriato.»

«Perché non lo voglio», rispose Greywolf, tranquillo.

«Non c'è più un unico indiano che porti un nome come quello che ti sei dato tu.»

«Ci sono io.»

Inutile, pensò Anawak. Sei venuto per ringraziarlo, l'hai ringraziato, tutto il resto è roba vecchia. Perché stai ancora qui? Dovresti andartene.

Ma non se ne andò. «Okay, per favore, spiegami una cosa: se dai tanto valore all'essere accettato dal popolo che hai scelto, perché tanto per cambiare non provi a essere un vero indiano?»

«Come te?»

Anawak sobbalzò. «Lasciami fuori da questa storia.»

«Perché?» ringhiò Greywolf, pronto ad attaccare. «Non capisco perché dovrei prendere le bastonate che sono indirizzate a te.»

«Perché sono io a darle!»

Improvvisamente sentì rimontare la rabbia, più forte che mai. Ma stavolta non aveva voglia di riportarsela a casa come al solito, di rinchiuderla dentro di sé facendosi venire l'ulcera. Era troppo tardi. Non si poteva tornare indietro. Si sarebbero dovuti guardare negli occhi e sapeva che cosa voleva dire. Ogni vittoria che otteneva su Greywolf comportava una sconfitta per se stesso.

Greywolf lo guardava da sotto le palpebre semichiuse. «Non sei venuto per ringraziarmi, Leon.»

«Invece sì.»

«Ci credi? Sì, ci credi. Ma sei qui anche per altro.» Fece un sorriso beffardo e incrociò le braccia. «Allora, sputa il rospo. Cosa devi dire di così importante?»

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