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Per il momento poteva bastare. Doveva tornare da Johanson. Buttarlo in mare e spedirgli Anawak al seguito.

Quando si alzò, vide Greywolf venire verso di lui.

Vanderbilt si mise in posizione di attacco. Girò sul proprio asse con la gamba destra tesa, sferrò il calcio e rimbalzò.

Che storia è mai questa? pensò, sbigottito. Tutti gli altri erano finiti a terra o si stavano contorcendo dal dolore. Quel gigantesco mezzo indiano, invece, non aveva fatto neanche una piega. Nei suoi occhi c'era un'espressione inequivocabile. Di colpo, Vanderbilt comprese che doveva vincere quel duello, altrimenti non sarebbe sopravvissuto. Incrociò le braccia per assestare il colpo, lo sferrò e sentì che il suo pugno veniva tranquillamente deviato. Un attimo dopo, la mano sinistra di Greywolf affondò nel suo doppio mento. Vanderbilt cercò di colpirlo coi piedi, ma l'altro, con una mossa disinvolta, lo trascinò con sé verso il bordo. Poi lo sollevò e lo colpì.

Il campo visivo di Vanderbilt esplose.

Tutto divenne rosso. Sentì il setto nasale che si rompeva. Il colpo successivo gli frantumò lo zigomo sinistro. Dalla sua gola uscì un grido gorgogliante. Un nuovo pugno si conficcò in mezzo alla mascella. I denti saltarono via. Ormai Vanderbilt urlava a pieni polmoni, per il dolore e per la rabbia. Era fuori di sé. Si trovava nella morsa del gigante e non poteva fare nulla per evitare che il suo viso fosse ridotto in poltiglia.

Le gambe cedettero.

Greywolf lo lasciò e lui cadde lungo disteso. Non vedeva più granché: un po' di cielo e l'asfalto grigio della piattaforma coi segni verniciati di giallo, il tutto attraverso una cortina di sangue, e là, vicinissima, l'arma. Allungò la destra, riuscì a prenderla, strinse l'impugnatura. Sollevò l'arma e sparò.

Per un momento regnò il silenzio.

L'aveva preso? Sparò un'altra volta, ma quel colpo andò in aria. Il suo braccio era stato piegato all'indietro. Per un attimo scorse Anawak, poi la pistola gli venne sottratta. Infine vide di nuovo gli occhi di Greywolf, iniettati d'odio.

Il dolore lo attraversò come una scossa elettrica.

Cos'era successo? Non era più appoggiato sulla schiena, ma verticale. O era sospeso? In effetti non sapeva più dov'erano il sopra e il sotto. Volò all'indietro. Attraverso una nebbia di sangue, riconobbe la piattaforma. Là c'era il bordo. Perché era oltre il bordo? Vide che esso gli passava davanti e si allontanava verso l'alto, insieme con le reti di protezione.

Allora Vanderbilt comprese che la sua vita era finita.

Il freddo lo colpì come uno shock.

Spuma che spruzzava verso l'alto. Verde striato dalla schiuma, bolle, tante bolle. Incapace di muoversi, Vanderbilt affondava. L'acqua del mare gli lavò il sangue dagli occhi. La nave non c'era più. In realtà non c'era più nulla, a parte un verde senza contorni che diventava sempre più scuro. E un'ombra.

Era veloce.

E aveva una bocca che si spalancava proprio davanti a lui.

Poi non ci fu davvero più nulla.

Laboratorio

«Per l'amor del cielo, che sta facendo?»

«Lo lasci andare.»

Le parole risuonavano nella testa di Karen. Erano la domanda fatta con orrore da Peak e il brusco ordine di Judith Li, appena prima che il laboratorio fosse scosso con incredibile violenza. Al rombo dell'esplosione era seguito un rumore indescrivibile, come se la nave si stesse sfasciando. Karen cadde, trascinando con sé Rubin. Finirono dietro il tavolo in una confusione di strumenti e contenitori. La sala rimbombava. Vibrava tutto. I vetri esplodevano. Karen pensò al laboratorio di massima sicurezza e sperò che l'isolamento di vetro corazzato e la paratia a tenuta stagna reggessero. Strisciando, si allontanò da Rubin, che stava rotolando e si guardava intorno, allucinato.

Lo sguardo di Karen cadde sulla valigetta con le provette. Era scivolata proprio davanti ai suoi piedi. L'aveva vista anche Rubin.

Per un attimo, ciascuno dei due valutò le proprie possibilità. Poi Karen si catapultò in avanti, ma Rubin fu più veloce. Afferrò la valigetta, saltò in piedi e corse attraverso la sala. Karen fu costretta a lasciare il suo rifugio. Doveva assolutamente recuperare la valigetta; non importava quello che sarebbe successo e quali conseguenze ci sarebbero state. Doveva fermare il piano di Judith Li.

Due soldati erano finiti a terra. Uno non si muoveva, l'altro si stava rialzando a fatica. Il terzo soldato era rimasto in piedi e teneva sempre l'arma spianata. Judith Li si chinò per prendere il mitra dell'uomo immobile, un massiccio aggeggio nero. Un istante dopo, scorse Karen.

Peak era appoggiato alla porta chiusa, rigidissimo. «Karen!» gridò. «Si fermi! Non le succederà niente! Si fermi, maledizione!»

Le raffiche dell'arma coprivano la sua voce. Karen fece un balzo felino dietro un bancone. Non sapeva con che cosa le stesse sparando Judith Li, ma i colpi sfasciavano il tavolo come se fosse stato di cartone. Schegge di vetro le passarono vicino alle orecchie e un microscopio da mezzo quintale si sfracellò a terra vicino a lei. In quell'inferno di rumori, c'era anche il suono lamentoso dell'allarme di bordo. Improvvisamente, Karen vide Rubin che, con gli occhi sgranati per il terrore, correva verso di lei.

«Mick», gridò Judith Li. «Idiota! Venga qui.»

Karen uscì dal suo nascondiglio, si lasciò cadere sull'uomo e gli strappò la valigetta. Nello stesso istante, la nave tremò di nuovo e la sala sembrò piegarsi. Rubin scivolò sul pavimento, finì contro uno scaffale e lo rovesciò. Fu martellato da una pioggia di provette e vetri. Lanciò un grido e, appoggiato sulla schiena, cominciò a zampettare come uno scarafaggio. Con la coda dell'occhio, Karen vide Judith agitare l'arma e il terzo soldato saltare oltre il tavolo distrutto. Anche lui aveva uno di quegli imponenti aggeggi neri e lo aveva sollevato già durante il salto.

Non c'erano vie di fuga. Quindi Karen si lasciò cadere vicino a Rubin.

«Non sparare!» sentì dire a Judith Li. «È troppo…»

Il soldato fece fuoco e la mancò. Con un suono simile a quello di un gong, i proiettili si conficcarono nel vetro blindato del simulatore di abissi marini e solcarono il vetro ovale da sinistra a destra.

Improvvisamente calò un silenzio inquietante. Solo l'allarme diffondeva a intervalli regolari il suo suono gracchiante. Come stregati, tutti fissavano la cisterna. Karen sentì un unico, altissimo scricchiolio. Allora girò la testa e vide delle crepe sulla grande superficie di vetro.

Le crepe diventavano sempre di più.

«Mio Dio», gemette Rubin.

«Mick!» gridò Judith. «Si muova! Venga qui!»

«Non posso», piagnucolò lui. «La mia gamba… Sono bloccato.»

«Fa lo stesso», lo interruppe la donna. «Non abbiamo più bisogno di lei. Andiamo via.»

«Non può…» iniziò a dire Rubin.

«Sal, apra la porta!»

Non si seppe mai se Peak avesse intenzione di ribattere qualcosa. Il vetro si frantumò, con uno schianto assordante. Tonnellate di acqua marina si riversarono su di loro. Karen balzò via. Dietro di lei, l'acqua invase nel laboratorio e distrusse tutto ciò che non era già stato frantumato.

«Karen!» Era Rubin. «La prego, non mi lasci qui…»

La sua voce divenne un gorgoglio. La donna vide Peak zoppicare fuori dal laboratorio, con Judith al seguito. Nell'uscire, lei batté con la mano in un punto vicino alla porta e, con rinnovato orrore, comprese che cosa significava.

Judith voleva chiuderla dentro.

L'ondata la colpì alle spalle e la spinse in avanti, facendola cadere sulle ginocchia. Era fradicia fino alle ossa, ma stringeva a sé la valigetta con le provette. Boccheggiando e lottando per non essere risucchiata via, cercò di raggiungere la porta che si stava chiudendo lentamente, fece gli ultimi metri con un unico balzo, sbatté contro l'intelaiatura e arrivò sulla rampa.

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