«No, mette in moto una reazione a catena», ansimò Rubin. «La morte programmata delle cellule. Non appena si fondono, si eliminano da sole. Quando il feromone si aggancia, è ormai troppo tardi. Una volta che il processo è iniziato, non è più possibile fermarlo. Noi decodifichiamo gli yrr… È come un virus mortale che si trasmettono a vicenda.»
Sue afferrò Rubin per il colletto. «Dovete fermare l'esperimento», disse con foga. «Non potete percorre questa strada. Maledizione, non capisci che questi esseri sono i veri signori della Terra? Loro sono la Terra! Un superorganismo. L'oceano intelligente. Cosa succederebbe se…»
«E se non lo fermiamo?» Rubin emise una risata gracchiante. «Non venire a farmi la predica! Moriremo tutti. Volete aspettare il prossimo tsunami? La prossima fuoriuscita di metano? La nuova Era Glaciale?»
«Non siamo qui neppure da una settimana e abbiamo già avviato un contatto», ribatté Karen. «Perché non cerchiamo di continuare sulla strada della comprensione?»
«Troppo tardi», gemette Rubin.
I loro sguardi si spostavano dal soffitto alle pareti. Non sapevano quanto tempo restava prima dell'arrivo di Judith Li o di Peak. Forse sarebbe arrivato anche Vanderbilt. Probabilmente mancava poco.
«Perché?»
«Perché è così, stupida!» gridò Rubin. «Tra meno di due ore metteremo in azione il veleno.»
«Siete pazzi», mormorò Sue.
«Voglio sapere esattamente come farete, Mick. Altrimenti la mia mano scivolerà e…»
«Non sono autorizzato a parlare!»
«Dico sul serio.»
Rubin tremò ancora di più. «Due siluri che contengono il veleno sono pronti per il Deepflight 3. Abbiamo riempito i proiettili…»
«Sono già a bordo?»
«No, dovevo attrezzare l'imbarcazione tra poco per…»
«Chi va giù?»
«Judith e io.»
«Scende anche Judith?»
«È stata una sua idea. Non lascia niente al caso.» Rubin si sforzò di sorridere. «Non potrete far nulla contro di lei, Karen. Noi salveremo il mondo. Sarà il nostro nome quello che verrà ricordato…»
«Chiudi la bocca, Mick.» Karen cominciò a scivolare in direzione della porta. «Ora andiamo in quel laboratorio. L'imbarcazione non sarà caricata. C'è appena stato un cambio nella sceneggiatura.»
Ponte a pozzo
«C'è qualcosa fra te e Karen?» chiese Greywolf, mentre riponeva l'attrezzatura nel container.
Anawak sobbalzò. «No, assolutamente no.»
«Davvero?»
«Andiamo d'accordo. Credo sia tutto lì.»
«Almeno tu dovresti cominciare a fare qualcosa di giusto», borbottò Greywolf, fissandolo.
«Non so se lei sia interessata a…» D'un tratto, Anawak si rese conto di ciò che aveva appena ammesso con se stesso e a Greywolf. «Davvero, Jack, non lo so. Purtroppo in queste cose sono un vero imbranato.»
«Lo so», ridacchiò l'altro. «Doveva morire tuo padre perché arrivassi nel mondo dei viventi.»
«Ehi…»
«Non agitarti. Lo sai che ho ragione. Perché non vai da lei? Aspetta solo quello.»
«Sono venuto qui per te, non per Karen.»
«Sono perfettamente in grado di gestire la situazione. Va', su.»
«Accidenti, Jack.» Anawak scosse la testa. «Smettila di seppellirti qui. Vieni su con me prima che ti crescano le pinne.»
«Al momento, le pinne non mi dispiacerebbero.»
Anawak guardò verso il tunnel. Certo che voleva raggiungere Karen, ma, oltre al sentimento che aveva appena ammesso, c'era anche un altro motivo. Si era accorto che qualcosa la rendeva inquieta. Non l'aveva mai vista così tesa e agitata. Probabilmente stava riflettendo su quello che gli aveva raccontato di Johanson.
«Va bene, sta' qui a fare la muffa», disse a Greywolf. «Se ci ripensi io sono su.»
Lasciò il ponte a pozzo e passò davanti al laboratorio. Era chiuso, ma lui pensò di darci un'occhiata. Forse avrebbe trovato Johanson. Gli avrebbe chiesto qualcosa di più su quella faccenda… Poi cambiò idea e risalì la rampa verso il ponte dell'hangar, per dare un'occhiata alla parete misteriosa.
Ma non lo fece.
Non appena fu entrato nell'hangar, vide Vanderbilt e Anderson che stavano attraversando il passaggio per la piattaforma esterna.
Improvvisamente ebbe una brutta sensazione.
Che ci facevano lì?
E dov'era finita Karen?
Abisso
Si era alzato il vento da ponente. Ululando, soffiava dalla calotta polare, trascinava frangenti schiumosi contro lo scafo dell'Independence, spazzava via dal mare gli ultimi residui di calore.
Sotto la superficie violentemente scossa si formavano mulinelli e turbolenze, ma, con l'aumentare della profondità il mare diventava sempre più calmo. Fino a qualche mese prima, l'acqua gelida, appesantita dal sale, sprofondava in cascate. C'era sempre un freddo terribile, ma adesso, nell'oceano, all'acqua salata si mescolava quella dolce, proveniente dal rapido scioglimento delle masse di ghiaccio polari, verso le quali da un po' di tempo era stato dirottato il calore. La grande pompa nordatlantica — detta il polmone dei mari, perché, con l'acqua fredda, portava in profondità anche grandi quantità di ossigeno — si stava lentamente ma inesorabilmente fermando. Il nastro trasportatore delle correnti marine era fermo, la corrente che diffondeva il calore proveniente dai tropici si era esaurita.
Eppure la pompa non aveva interrotto completamente il proprio lavoro. Anche se le cascate non erano più misurabili, c'erano ancora piccole masse d'acqua fredda che si spostavano in basso. Attraverso un silenzio senza luce, cadevano nell'abisso del bacino di Groenlandia, metro dopo metro, per centinaia, migliaia di metri.
A tremila metri di profondità, appena sopra il fondale, le tenebre svanivano, attraversate da una lucentezza blu scuro.
Si stendeva su una superficie gigantesca: non era una nuvola, bensì una formazione dalle pareti sottili, a forma di tubo, ancorata al suolo da innumerevoli piedini gelatinosi. All'interno del tubo, milioni di filamenti si piegavano in onde regolari, un prato di fili gelatinosi che si oscillavano con regolarità. Grandi frammenti di una sostanza bianchiccia si spostavano in direzione di un grande oggetto. La luce blu bastava appena per riconoscere la sua forma e illuminava due cupole aperte. Non si vedeva nulla di più del Deepflight affondato, che ormai giaceva nella melma degli abissi marini.
Da un po' di tempo, l'organismo aveva riempito il batiscafo di grandi frammenti ghiacciati. Ma ormai l'interno era pieno, così i rifornimenti erano cessati. Una parte del tubo si strinse, sprofondò sul batiscafo e cominciò ad avvolgerlo. La sostanza trasparente si stese intorno allo scafo e s'ispessì, spingendo in basso le cupole. Alcune superfici, di un blu splendente, si allargarono e si avvolsero l'una sull'altra, finché il batiscafo non fu rinchiuso in un involucro, verso cui si dirigeva un lungo tubo sottile.
Il tubo si mise a pulsare. Al suo interno veniva pompata dell'acqua, che proveniva da luoghi lontani. La sottilissima gelatina la aspirava da un grande pallone organico che stava sospeso un po' più in alto del batiscafo, ed era pieno di acqua più calda. La gelatina aveva preso quell'acqua dal vulcano di fango al largo della costa norvegese. Grazie all'acqua calda, e quindi più leggera, il pallone avrebbe potuto salire fino in superficie, ma il suo peso lo teneva in perfetto equilibrio.
Il calore fluiva nell'involucro di gelatina che racchiudeva il batiscafo.
I frammenti bianchi reagirono all'istante. Nel giro di qualche secondo, le gabbie di cristallo degli idrati si sciolsero. Come in un'esplosione, il metano compresso si espanse fino a centosessantaquattro volte il suo volume, riempì il Deepflight di gas e gonfiò l'involucro, finché questo non si tese. Il bozzolo di gelatina si staccò dal tubo e si chiuse. Il gas non poteva più uscire. Cominciò a salire verso l'alto, prima lentamente, poi, col diminuire della pressione, sempre più velocemente. Era un bozzolo che trascinava dentro di sé il batiscafo.