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Anawak

Si chiese cos'era andato storto. Sarebbe andato volentieri con lei in piscina, ma l'atmosfera era cambiata di colpo. Forse doveva chiederle il permesso di farle un massaggio alle spalle. Forse aveva valutato male la situazione.

Tu non ci sai fare in queste cose, pensò. Resta con le tue balene, stupido eschimese che non sei altro…

Decise di cercare Johanson per discutere la questione delle intelligenze unicellulari. Ma, in un certo senso, non ne aveva voglia. Così decise di dare un'occhiata al CIC. Greywolf e Alicia trascorrevano in quel luogo la maggior parte del tempo, impegnati nell'osservazione e nell'interpretazione dei suoni della squadra di delfini. Ma nel CIC non c'era altro da vedere che le riprese delle telecamere sullo scafo. I monitor mostravano l'acqua scura. Non era successo praticamente nulla da quando, al mattino, le orche avevano circondato la nave e poi, a quanto pareva, se n'erano andate. Shankar era seduto davanti al monitor su cui scivolavano file di numeri, portava cuffie enormi ed era in ascolto dei suoni degli abissi. Uno degli uomini di Shankar disse che Greywolf e Alicia erano nel ponte a pozzo per dare il cambio a MK6 con MK7.

Quindi Anawak discese la rampa del tunnel e raggiunse il ponte dell'hangar. Lì faceva freddo e si era esposti alle correnti. Voleva procedere, ma qualcosa lo trattenne. Benché la luce del giorno entrasse dalle gigantesche aperture degli elevatori esterni, l'atmosfera era dominata dalla penombra giallognola e sbiadita dell'illuminazione al vapore di sodio. Cercò d'immaginare l'hangar pieno di elicotteri, jet Harrier, veicoli e attrezzature, tutto stipato al centimetro, in modo che restasse appena lo spazio per infilarsi in una porta, in una finestra o in una botola. Cercò d'immaginare le jeep e i muletti che salivano e scendevano le rampe, scoppiettando rumorosamente. Cercò d'immaginare le centinaia di marine diligenti che, non appena i velivoli arrivavano in coperta, ne esaminavano le armi e le attrezzature, veloci e concentrati. Immaginava l'imponente meccanismo dell'Independence.

Quello spazio gigantesco era assurdamente vuoto, inutile. Gli uffici tra le strutture di rinforzo dello scafo erano inutilizzati. Le lampade gialle appese alle traverse d'acciaio dell'alto e scuro soffitto illuminavano praticamente solo se stesse. Le tubature lungo le pareti conducevano al nulla. E ovunque c'erano cartelli di pericolo. Per chi?

«Talvolta, se la palestra è troppo affollata, mettiamo qui qualche tapis roulant», aveva detto Peak a Norfolk quando lo aveva condotto a fare un giro per la nave. «Allora sì che è proprio piacevole.» Era rimasto con la fronte aggrottata, come se stesse cercando le parole giuste. Infine aveva aggiunto: «Odio quando l'hangar è così vuoto. Odio il senso di abbandono che deriva dagli spazi che dovrebbero essere pieni. In un certo senso odio questa missione».

Era stata l'unica volta che aveva visto Peak in quello stato d'animo.

Lo spazio più vuoto è sempre quello dentro di sé, pensò Anawak.

Senza fretta, attraversò l'hangar e uscì sulla piattaforma dell'elevatore di sinistra. Il montacarichi era sospeso sulle onde, simile a un enorme solarium. Era fissato a rotaie verticali collocate ai due lati del portone di accesso. Due grandi elicotteri, con le pale dei rotori ripiegate, si trovavano lì per essere sollevati dall'hangar al ponte di volo. Anawak socchiuse gli occhi. Il vento sembrava morderlo. Una violenta raffica avrebbe potuto sollevare una persona e gettarla oltre la piattaforma, che era priva di sponde. Invece, intorno alla piattaforma, erano tese delle reti. Un cerchio di reti simili circondava tutta la nave, in modo che la tempesta e il getto degli aerei non scagliassero qualcuno in acqua.

Restava comunque rischioso.

Dieci metri sotto di lui, infuriava il mare. La visuale era ancora indistinta, ma la pioggia di particelle ghiacciate era finita. Il mare era un'infinita distesa marmorizzata, striata di schiuma. Un mare color ardesia, striato di bianco e in moto costante. Un deserto.

Che strano, pensò. Aveva trascorso più di metà della sua vita nel clima più temperato della costa occidentale del Canada. E adesso, per la seconda volta consecutiva, il destino l'aveva scagliato tra i ghiacci.

Il vento gli scompigliava i capelli. Sentì la pelle diventare progressivamente insensibile per il freddo. Portò le mani davanti alla bocca, formando una conchiglia, e ci soffiò dentro.

Poi rientrò.

Laboratorio

Sigur Johanson aveva promesso a Sue Oliviera d'invitarla a una vera cena a base di gamberi non appena tutto fosse finito. Poi con l'aiuto dello Spherobot pescò un granchio dal simulatore. Il robot sferico, tenendo nel suo braccio meccanico l'animale quasi completamente immobile, scivolò nel garage, dov'era pronto un contenitore a chiusura ermetica, laccato, di PVC. Era impressionante: sembrava quasi che il robot reggesse quel granchio tenendolo a distanza con disgusto, per farlo poi cadere nel contenitore che infine chiuse.

Un piccolo robot stomacato dalla situazione.

Il contenitore fu portato in uno spazio asciutto attraverso una paratia, spruzzato di acido peracetico, lavato con l'acqua, sottoposto a un altro getto di soda caustica e portato fuori dal simulatore attraverso un'altra paratia. Per quanto letale fosse l'acqua nella cisterna, adesso il contenitore era pulito.

«È sicura di cavarsela da sola?» chiese Johanson. Aveva in programma una videotelefonata a Bohrmann che, a La Palma, stava preparando l'operazione con l'aspiratore.

«Nessun problema.» Sue prese il contenitore col granchio. «Nel caso, mi metterò a gridare, con la speranza che venga lei a salvarmi e non quello scimmione di Rubin.»

Johanson rise sotto i baffi. «Condividiamo un'avversione?»

«Non ho niente contro Mick», disse lei. «Però è così maledettamente impegnato a inseguire il Nobel…»

«Pare anche a me. E lei?»

«Che c'entro io?»

«Non ha voglia di mettersi sul capo la corona d'alloro? Se sopravvivremo, tutti noi diventeremo un po' più famosi.»

«Non avrei nulla in contrario a qualche fan. La scienza è piuttosto arida.» Sue si bloccò. «A proposito, dov'è?»

«Chi? Rubin?»

«Sì. Voleva assistere alle analisi del DNA nel laboratorio di massima sicurezza.»

«Ne sia lieta.»

«Ne sono lieta. Però mi chiedo dove si sia cacciato.»

«Sicuramente starà facendo qualcosa di utile», disse Johanson, conciliante. «Credo che non sia una cattiva persona. Non puzza, non ha ucciso nessuno e sui suoi scaffali c'è una lunga serie di riconoscimenti. Può anche non piacerci, ma ci è d'aiuto.»

«Davvero? Lei crede davvero che finora abbia fatto qualcosa di utile?»

Johanson allargò le braccia. «Mia gentile signora, che importanza ha chi di noi ha una buona idea?»

Sue sorrise. «L'autoinganno di serie B.» Si strinse nelle spalle. «Ma sì, faccia quello che vuole. Chissà che non torni buono.»

Sedna

Anawak si avvicinò al bordo del bacino.

Il ponte era ancora pieno d'acqua. Vide Greywolf e Alicia, con le tute di neoprene, togliere le bardature ai delfini. Più in là, verso poppa, sul ponte era sospeso un batiscafo Deepflight. Roscovitz e Kate Ann tenevano d'occhio ogni cosa dal pannello di controllo. Lo scafo, simile a quello di una navicella spaziale, si piegò lentamente in avanti, fino a toccare l'acqua, e vi si appoggiò, oscillando. Sul fondo, attraverso l'acqua increspata, si vedeva luccicare la paratia.

Roscovitz guardò verso di lui.

«Esce?» gli gridò Anawak.

«No.» L'altro indicò l'imbarcazione. «Questo giocattolino è un po' malconcio. Ha qualcosa che non va nella guida verticale.»

«Una cosa grave?»

«Niente d'importante, ma è meglio controllare.»

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