«Come?» Samantha si fece avanti. «Un segnale? Di che genere?»
«Credo che sia lei a dovercelo dire.» Anderson le rivolse uno sguardo indifferente. «Ma è molto alto. E molto vicino.»
Combat Information Center
«È un segnale nel campo delle basse frequenze», disse Shankar. «Sul modello scratch.»
Lui e Samantha avevano raggiunto di corsa il CIC. Nel frattempo, avevano ricevuto la conferma dalle stazioni di terra. In effetti, secondo i calcoli, la fonte si trovava nelle immediate vicinanze dell'Independence.
«Ci capite qualcosa?» chiese Judith Li, entrando.
«Per il momento, no.» Samantha scosse la testa. «Dobbiamo usare il computer. Spezzetterà il segnale e lo confronterà coi campioni.»
«Allora ne avremo fino all'anno prossimo.»
«Vorrebbe essere una critica?» sbottò Shankar, seccato.
«No, tuttavia mi chiedo come farete a decifrare in pochi giorni un segnale su cui la vostra gente si sta spaccando la testa dagli anni '90.»
«E se lo chiede ora?»
«Non litigate, bambini.» Samantha prese una sigaretta, poi la accese con tutta calma. «Ho detto che è una cosa completamente diversa cercare di farsi comprendere dagli extraterrestri. Verosimilmente, ieri abbiamo mandato agli yrr il primo messaggio che potessero decifrare. Risponderanno nello stesso modo.»
«Lei crede davvero che risponderanno con lo stesso codice?»
«Se sono gli yrr, se è una risposta, se hanno capito il codice, se hanno interesse a dialogare, allora sì.»
«Perché rispondono con gli infrasuoni e non sulla nostra stessa frequenza?»
«Perché dovrebbero?» chiese Samantha, sorpresa.
«Per diplomazia.»
«Perché non risponde in russo a un russo che si rivolge a lei in un inglese passabile?»
Judith Li scrollò le spalle. «Va bene. E ora?»
«Come prima cosa, dobbiamo interrompere la trasmissione del messaggio per segnalare che abbiamo ricevuto la loro risposta. Se hanno usato il nostro codice, lo scopriremo in fretta. Si saranno sforzati di rendere la decifrazione il più semplice possibile. Ma se la nostra intelligenza sia sufficiente per comprendere la risposta… Be', questa è un'altra faccenda.»
Joint Intelligence Center
Karen Weaver si era ripromessa l'impossibile. Cercava d'ignorare la consapevolezza dell'esistenza di una forma di vita intelligente e contemporaneamente di confermarla.
Samantha le aveva spiegato che tutte le ipotesi sulle civiltà extraterrestri culminavano sempre nelle stesse domande, tra cui c'era quella sulle dimensioni di un'entità intelligente. Nell'ambiente del SETI, dove ci si dedicava alle possibilità di una comunicazione interstellare, si filosofeggiava prevalentemente su esseri consapevoli dell'esistenza di altri mondi, esseri che sollevavano lo sguardo al cielo e che, a un certo punto, decidevano di stabilire un contatto. Era verosimile che esseri di quel genere vivessero sulla terraferma, cosa che avrebbe imposto limiti ben definiti alla loro possibilità di crescita.
Astronomi ed esobiologi erano arrivati a una conclusione: per avere temperature superficiali tali per cui, nel giro di uno o due miliardi di anni, si potesse sviluppare una vita intelligente, un pianeta non doveva possedere meno dell'85 per cento e più del 133 per cento della massa terrestre. Dalle dimensioni di quei pianeti virtuali risultavano diversi scenari riguardanti la forza di gravità, che a sua volta poteva fornire indicazioni sulla costituzione fisica delle specie che li abitavano. Teoricamente, su un pianeta simile alla Terra, un essere vivente poteva crescere senza limiti. In pratica, però, la sua crescita terminava nel momento in cui esso diventava troppo pesante per reggere il suo stesso peso. Naturalmente i dinosauri avevano ossa sovradimensionate, ma, in un certo senso, il cervello era rimasto indietro. Il loro organismo sembrava costruito esclusivamente per permettere loro di spostarsi — a fatica — e mangiare. Per gli esseri intelligenti dotati di mobilità valeva la regola generale che non dovevano superare i dieci metri.
Ancora più entusiasmante era la questione del limite inferiore della crescita. Le formiche potevano sviluppare l'intelligenza? E che dire dei batteri o dei virus?
Gli scienziati del SETI e gli esobiologi avevano una lunga serie di argomenti su cui discutere. Era praticamente certo che, nei settori più «familiari» dello spazio, non c'era nessuna forma di civiltà simile a quella umana. Ciò si poteva sostenere quantomeno nel sistema solare. Al massimo, c'era la speranza di scoprire su Marte o su una delle lune di Giove qualche spora e forse addirittura un organismo unicellulare. Quindi si cercava la più piccola unità funzionante che potesse essere definita vita, con cui si potesse arrivare inevitabilmente a una molecola organica complessa, il più minuscolo sistema informativo e di memoria immaginabile, con una propria infrastruttura. E quindi si arrivava alla domanda se una molecola poteva sviluppare l'intelligenza.
Indubbiamente una molecola non poteva.
Ma non era intelligente neppure la singola cellula nervosa del cervello umano. Per rendere intelligente un uomo erano necessari cento miliardi di cellule e ciò era in relazione alle sue dimensioni corporee. Un essere intelligente più piccolo dell'uomo probabilmente avrebbe avuto bisogno di meno cellule, ma le dimensioni delle molecole di cui esse erano costituite sarebbero rimaste uguali e, al di sotto di un certo numero di molecole, non poteva accendersi la scintilla dell'intelligenza. Il problema con le formiche era proprio quello. Forse si poteva attribuire loro un'intelligenza inconsapevole, ma il loro cervello aveva comunque un numero troppo limitato di cellule per «mirare» a un'intelligenza superiore. Inoltre, poiché le formiche non respiravano coi polmoni, ma conducevano l'ossigeno direttamente nelle cellule attraverso le trachee, non potevano crescere — oltre certe dimensioni la respirazione attraverso il corpo non funzionava più — e quindi non potevano sviluppare un cervello più grande. Così, come tutti gli insetti, arrivavano in un vicolo cieco dell'evoluzione. Gli scienziati ritenevano che il limite inferiore delle dimensioni corporee per un essere intelligente fosse dieci centimetri, e quindi la possibilità di trovare un Aristotele che zampettava era praticamente pari a zero. Figuriamoci un Aristotele unicellulare.
Mentre lavorava al computer, tentando di spiegare il rapporto tra organismi unicellulari e intelligenza, Karen rifletteva su queste cose. Poche ore dopo la scoperta fatta in laboratorio, la questione se la gelatina fosse davvero intelligente suscitava, sull'Independence, un diffuso scetticismo. Gli unicellulari non erano creativi e non sviluppavano la consapevolezza di sé. Era vero che una grande massa di unicellulari poteva teoricamente corrispondere a un cervello o a un corpo. Ed era altrettanto vero che la «cosa» al largo di Vancouver Island verso cui avevano nuotato le balene era composta da miliardi di cellule. Ma ciò implicava un pensiero? E, se anche così fosse stato, come apprendeva, quella cosa? Come comunicavano le cellule? Cosa rendeva un conglomerato di cellule un insieme dotato di capacità superiori?
Cosa aveva portato gli uomini a un tale livello?
O quella gelatina era effettivamente solo una massa apatica, oppure nascondeva un trucco.
Era effettivamente riuscita a guidare balene e granchi.
Doveva esserci un trucco!
La Kurzweil Technologies aveva sviluppato un programma per la costruzione di un'intelligenza artificiale, composta da miliardi di unità di memoria che dovevano simulare i neuroni e quindi il cervello. In tutto il mondo si lavorava sull'intelligenza artificiale e si era arrivati a uno stadio in cui essa era dotata di capacità di apprendimento e, in un certo senso, anche di un autosviluppo creativo. Nessuno dei ricercatori aveva ancora sostenuto di essere arrivato a qualcosa che somigliasse alla consapevolezza, ma la questione rimaneva aperta: in quale momento un agglomerato di piccole unità identiche diventava una forma di vita? E, soprattutto, era possibile creare la vita in quel modo?