Bohrmann lo fissò. «Hanno fatto cosa?»
«È già ferma», intervenne Karen Weaver. «Forse scorre ancora un po', ma sono gli ultimi movimenti. Nel giro di pochi anni, il mondo dovrà prepararsi a un'altra Era Glaciale. È possibile che, in meno di cento anni, sulla Terra sia tutto ghiacciato.»
«Un momento», gridò Peak. «Il metano surriscalderebbe la Terra, e questo lo sappiamo. L'atmosfera potrebbe collassare. Ma che cosa c'entra con un'Era Glaciale provocata dal blocco della Corrente del Golfo? Com'è possibile, per l'amor del cielo? Siamo di fronte a una sorta di compensazione del terrore?»
Karen Weaver lo guardò. «Direi un potenziamento.»
All'inizio, sembrava che Vanderbilt fosse l'unico a rifiutare la teoria di Johanson; nel corso delle ore successive, tuttavia, il quadro cambiò. Il gruppo si spaccò in due e gli animi degli schieramenti contrapposti si esacerbarono. Vennero riesaminati tutti gli avvenimenti: le prime anomalie, l'inizio degli attacchi delle balene, le circostanze in cui erano stati scoperti i vermi. Ormai sembrava di essere in mezzo a una partita di rugby: ci si faceva largo a gomitate con la retorica, gli argomenti venivano giocati da un parte all'altra, le fazioni si attaccavano a turno, spiazzavano l'avversario con nuovi aspetti e cercavano di atterrarlo. Anawak sapeva bene qual era la domanda inespressa: era possibile che una diversa forma d'intelligenza stesse contendendo il predominio a quella umana? Nessuno ne parlava apertamente. Ma lui, avvezzo alle dispute sull'intelligenza animale, coglieva il significato profondo di ogni parola. La teoria di Johanson non metteva in discussione la scienza, bensì l'immagine che un gruppo di esperti aveva di se stessi. Scienziati che, prima di tutto, erano uomini. Vanderbilt riuscì a ottenere l'appoggio di Mick Rubin, Stanley Frost, Bernard Roche, Murray Shankar e Salomon Peak, benché quest'ultimo non fosse pienamente convinto. Johanson conquistò la fiducia di Judith Li, Sue Oliviera, Ray Fenwick, John Ford, Gerhard Bohrmann e Leon Anawak. Gli agenti dei servizi segreti e i diplomatici in un primo momento rimasero sbalorditi, come se stessero assistendo a una pièce del teatro dell'assurdo. Poi cominciarono a schierarsi.
Fu sorprendente.
Quelle spie di professione, quei consiglieri per la sicurezza superconservatori e quegli esperti di terrorismo si schierarono quasi tutti dalla parte di Johanson. Uno di loro disse: «Sono abituato a ragionare senza pregiudizi. Se gli argomenti mi convincono, ci credo. Se gli argomenti contrari sono deformati con espedienti retorici soltanto perché così possono rientrare nella griglia delle nostre esperienze, allora non ci credo».
Il primo a disertare dalla piccola truppa di Vanderbilt fu Peak. Lo seguirono Frost, Shankar e Roche.
Vanderbilt, sfinito, propose una tregua.
All'esterno della sala riunioni era stato allestito un buffet con succhi di frutta, caffè e dolci. Karen si avvicinò ad Anawak. «Lei non ha espresso perplessità sulla teoria di Johanson», affermò. «Come mai?»
Lui la guardò e sorrise. «Caffè?»
«Grazie. Col latte.»
Versò due tazze e gliene passò una. Karen era poco più bassa di lui. Improvvisamente si rese conto che le piaceva, benché non avessero parlato molto. Le era piaciuta fin dal primo momento, quando i loro sguardi si erano incrociati davanti allo Château. «Sì», disse. «La teoria è ben ponderata.»
«Solo per questo? O è perché in fondo crede all'intelligenza degli animali?»
«Non ci credo. In generale credo all'intelligenza, ma sono anche convinto che gli animali sono animali e gli uomini sono uomini. Se potessimo dimostrare che i delfini sono intelligenti come noi, con tutte le conseguenze del caso, non sarebbero più animali.»
«E crede che sia così?»
Anawak scosse la testa. «Finché continueremo a giudicare le cose dal punto di vista umano, non lo scopriremo. Lei ritiene che gli uomini siano intelligenti, Miss Weaver?»
Karen sorrise. «Un singolo uomo è intelligente. Gli uomini in gruppo diventano un'orda anomala.»
Bella risposta, pensò Anawak. «Vede?» disse. «Lo stesso potremmo…»
«Dottor Anawak?» Un uomo gli si avvicinò a passo veloce. Era del personale addetto alla sicurezza. «È lei il dottor Anawak?»
«Sì.»
«La cercano al telefono.»
Anawak aggrottò la fronte. Allo Château, nessuno era raggiungibile direttamente per telefono. Ma c'era a disposizione un numero cui i parenti potevano lasciare notizie o chiamare in casi urgenti.
Shoemaker aveva il numero. Chi altri?
«Nella hall», spiegò l'uomo. «O preferisce che la telefonata sia trasferita nella sua camera?»
«No, va bene nella hall. Arrivo.»
«A presto», gli gridò Karen, mentre lui si allontanava.
Anawak seguì l'addetto alla sicurezza fino alle cabine telefoniche.
«La prima», disse l'uomo. «Faccio trasferire la telefonata. Quando suona, non deve fare altro che sollevare la cornetta e sarà collegato con Tofino.»
Con Tofino? Allora è Shoemaker.
Anawak attese. Il telefono squillò e lui alzò il ricevitore.
«Ah, Leon», disse la voce di Shoemaker. «Mi dispiace davvero disturbarti. Lo so che sei impegnato in cose importanti, ma…»
«Non fa niente, Tom. Ieri è stata una bella serata.»
«Oh, sì. E… anche questo è importante… ehm…»
Sembrava che Shoemaker non riuscisse a trovare le parole. Poi sospirò. «Leon, ti devo dire una cosa terribile. Abbiamo ricevuto una telefonata da Cape Dorset.»
Anawak ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse strappato via il pavimento da sotto i piedi. E seppe all'istante che cos'era successo. Lo seppe prima ancora che Shoemaker dicesse: «Leon, tuo padre è morto».
Rimase immobile, come paralizzato.
«Leon?»
«Tutto okay, io…»
Tutto okay. Come sempre. Tutto okay. Tutto okay.
Che cosa doveva fare?
Niente era okay!
Judith Li
«Extraterrestri?» Il presidente era stranamente calmo.
«No», ripeté Judith per l'ennesima volta. «Non sono extraterrestri. Sono abitanti di questo pianeta. È… la concorrenza, se vuole.»
L'Offutt Air Force Base e lo Château erano in collegamento. A Offutt, oltre al presidente, erano presenti il segretario alla Difesa, il consigliere per la sicurezza nazionale, il segretario agli Interni, il segretario di Stato, e il direttore della CIA. Ormai non c'erano più dubbi: Washington avrebbe condiviso lo stesso destino di New York. La città era stata evacuata e il gabinetto del presidente era stato in gran parte trasferito nel Nebraska. I primi casi di morte evidenziavano la gravità della situazione, ma le procedure di evacuazione verso l'interno procedevano più o meno secondo i piani. Stavolta erano preparati.
Allo Château si erano riuniti Judith Li, Vanderbilt e Peak. Judith sapeva che a Offutt detestavano l'idea di doversene stare rinchiusi là dentro. Il direttore della CIA sentiva la mancanza del suo ufficio al sesto piano della sede di Langley. In segreto, invidiava il direttore del Centro nazionale per la lotta al terrorismo, che si era strenuamente rifiutato di far evacuare i suoi collaboratori.
«Porti la sua gente al sicuro», gli aveva ordinato.
«Questa è una crisi che bisogna tenere sotto controllo», era stata la risposta. «I miei uomini devono restare ai loro computer e lavorare. Il loro compito è decisivo. Sono gli occhi con cui osserviamo il terrorismo internazionale. Non possiamo evacuarli.»
«New York è stata attaccata da killer biologici», aveva ribattuto il direttore della CIA. «Guardi che cos'è successo. A Washington non sarà diverso.»
«Il Centro nazionale per la lotta al terrorismo è stato creato proprio per fronteggiare situazioni critiche.»
«Va bene, ma i suoi uomini potrebbero morire.»
«Allora moriranno.»
Anche il segretario alla Difesa avrebbe preferito dirigere le operazioni dal suo imponente ufficio. E diventava sempre più difficile impedire al presidente di salire sull'Air Force One e tornare alla Casa Bianca. Gli si potevano rimproverare molte cose, ma non che fosse un vigliacco. Anzi era così audace da indurre molti suoi avversari a mormorare che fosse troppo ignorante per provare paura.