«Johanson!»
Qualcuno gli diede un colpo. Lui si riscosse e si affrettò a salire gli scalini, seguito da Karen Weaver. L'elicottero aveva iniziato a vibrare. Poi Johanson scorse lo sbalordimento negli occhi del pilota e gridò: «Parta, subito!»
«Che razza di rumore è? Che succede?»
«Via, sollevi questa carcassa!»
«Non posso fare i miracoli. Cosa devo fare? Verso dove devo volare?»
«Non ha importanza. Bisogna prendere quota.»
I rotori si misero in moto, scoppiettando. Il Bell si staccò dal suolo e salì di un metro, poi di due metri. Ma la curiosità del pilota ebbe il sopravvento sulla paura. L'uomo girò l'elicottero di centottanta gradi, in modo da vedere il mare. Sul suo volto si dipinse il terrore.
«Oh, santo cielo», esclamò.
«Là!» Karen indicò le baracche. «Là fuori!»
Johanson girò la testa. Un uomo in jeans e T-shirt stava uscendo di corsa dall'edificio principale. Correva a perdifiato, gesticolando e teneva la bocca spalancata.
Johanson guardò Karen, perplesso. «Credevo…»
«Anch'io.» La donna osservava terrorizzata la figura che si avvicinava. «Dobbiamo scendere. Oddio, giuro che non sapevo che Steven fosse rimasto qui, pensavo che tutti…»
Johanson scosse energicamente la testa. «Non ce la può fare.»
«Non possiamo abbandonarlo.»
«Guardi là fuori, maledizione. Non ce la può fare. Non ce la facciamo neanche noi…»
Karen lo spinse da parte e gli passò davanti, diretta al portellone. Ma il pilota inclinò l'elicottero sulla striscia di sabbia, verso l'uomo che stava correndo, e lei perse l'equilibrio. Il velivolo fu colpito da una serie di violente raffiche che lo fecero vibrare. Il pilota imprecò ad alta voce. Per un attimo persero di vista lo scienziato, poi se lo ritrovarono vicinissimo.
«Ce la può fare», gridò Karen. «Dobbiamo scendere!»
«No», sussurrò Johanson.
Lei non lo sentì. Non poteva sentirlo. Anche il frastuono dei rotori spariva nel rimbombo del mare che si rovesciava verso la costa. Johanson sapeva che non avrebbero potuto salvare lo scienziato. Oltretutto avevano perso tempo prezioso e ormai dubitava che loro stessi riuscissero a cavarsela. Si costrinse a distogliere lo sguardo dalla figura che stava correndo e a guardare dritto davanti a sé.
L'ondata era gigantesca. Doveva essere alta trenta metri. Una parete verticale scrosciante di acqua grigio-nera. Poche centinaia di metri la separavano dalla riva, ma si avvicinava con la velocità di un treno. Restavano solo pochi secondi prima della collisione. Non c'era tempo sufficiente per prendere a bordo l'uomo e sfuggire alla massa d'acqua. Tuttavia il pilota provò ancora una volta ad avvicinarsi allo scienziato in fuga. Forse sperava che potesse saltare all'interno dal portellone aperto, oppure che riuscisse ad afferrare uno dei pattini… Insomma a fare una di quelle cose che al cinema riuscivano sempre, a patto di essere Bruce Willis o Pierce Brosnan. L'uomo inciampò e cadde.
È finita, pensò Johanson.
Tutto divenne scuro. Dal vetro della cabina non si vedeva più il cielo, ma solo l'onda. Riempiva il loro campo visivo, si lanciava contro di loro ad altissima velocità. Si erano giocati l'unica possibilità. Non c'era più niente da fare. Al massimo, con una risalita verticale, sarebbero stati travolti a metà del gigantesco frangente. Se avessero volato rasoterra verso l'interno, avrebbero guadagnato tempo per riprendere quota, ma l'acqua li avrebbe raggiunti comunque. Lo tsunami era più veloce del Bell che, oltretutto, doveva anche girarsi. I pochi secondi che avevano ancora a disposizione non sarebbero bastati.
In un momento di lucidità, Johanson si chiese come potesse osservare quella massa d'acqua senza perdere la ragione. Poi fu riportato bruscamente alla realtà da una manovra del pilota… l'unica manovra giusta. L'uomo spinse all'indietro l'elicottero e contemporaneamente lo fece alzare. Il muso del Bell si abbassò e tutti loro si ritrovarono a fissare il terreno. Però non stavano cadendo, anzi si stavano allontanando dal suolo e dall'ondata incombente. Il Bell ruggiva come se gli ingranaggi volessero esplodere. Johanson non avrebbe mai creduto che un elicottero potesse compiere una simile manovra — forse non lo credeva nemmeno il pilota -, eppure funzionò.
L'ondata incombeva su di loro, sbavando come un animale affamato. Turbinò sulla spiaggia e cominciò a ripiegarsi su se stessa. Montagne di schiuma inseguivano il Bell nella sua fuga pazzesca. Lo tsunami ruggiva e urlava. Un attimo dopo, l'elicottero prese un colpo terribile e Johanson fu scagliato contro la parete laterale, appena di fianco al portellone aperto. L'acqua lo colpì sul viso, sbatté la testa contro la parete e vide lampi rosso scuro. Poi le sue mani toccarono una sbarra di metallo e vi si aggrapparono. Fu percorso da un dolore lancinante. Non era più in grado di dire se lo spaventoso scroscio che sentiva nelle orecchie provenisse dall'onda o dalla sua testa, se stesse aumentando o calando. Il suo unico pensiero era che sarebbero stati travolti e annientati. Ormai attendeva solo la fine.
Poi la luce tornò. La cabina era piena di acqua vaporizzata. Sopra l'elicottero correvano nere nubi frastagliate.
Ce l'avevano fatta.
Erano scampati allo tsunami, riuscendo a superare di un pelo la cresta.
L'elicottero continuò a salire e intanto virò, in modo che si potesse vedere la costa. Ma la costa non c'era più. Si scorgeva soltanto una violenta ondata, che, senza aver perso velocità, si spingeva verso l'interno e ingoiava la campagna. La stazione, i veicoli e lo scienziato erano spariti. Alla loro destra, dove la costa si alzava in verticale, esplodevano sugli scogli fontane di schiuma che schizzavano verso il cielo, molto più in alto del Bell, come se volessero unirsi alle nuvole.
Karen si rialzò a fatica. Quando il getto d'acqua aveva colpito il Bell, lei era caduta sulla fila di sedili. Guardava fuori e continuava a ripetere: «Mio Dio!»
Il pilota taceva. Era terreo e gli tremava la mandibola.
Ma ce l'aveva fatta.
Inseguirono l'ondata. La massa d'acqua procedeva sullo sfondo a una velocità molto più elevata di quella dell'elicottero. Una collinetta entrò nel loro campo visivo; l'ondata ci passò sopra e si riversò, schiumando, nella pianura retrostante, senza quasi rallentare Il terreno era così pianeggiante che l'acqua si sarebbe spinta all'interno per chilometri. Johanson vide una serie di macchie bianche… Erano pecore, che fuggivano disperate. Poi sparirono anch'esse.
Una città costiera sarebbe stata rasa al suolo, pensò. No, sbagliato. Sarà rasa al suolo. Non una sola, ma praticamente tutte le città sulla costa del mare del Nord sarebbero sprofondate nel maelstrom. Lo tsunami, ovunque si fosse generato, in quello stesso istante si stava diffondendo a cerchio, com'era tipico delle onde provocate da un impulso. La sua furia distruttrice avrebbe raggiunto la Norvegia, l'Olanda, la Germania, la Scozia e l'Islanda. Quando Johanson si rese conto della catastrofe in atto, si piegò su se stesso, come se qualcuno gli avesse versato del metallo fuso in grembo.
Allora rammentò chi c'era a Sveggesundet.
Sveggesundet, Norvegia
Non si può negare che i fratelli Hauffen abbiano notevoli doti d'intrattenitori, pensò Tina. Facevano tutto il possibile per spingerla a restare. Avevano persino affermato di essere amanti di gran lunga migliori di Kare Sverdrup. Intanto le davano colpetti sui fianchi e le facevano cenni birichini. Tina fu costretta a bere un'altra grappa prima che acconsentissero a lasciarla andare.
Guardò l'orologio. Se fosse partita subito, sarebbe arrivata puntuale al Fiskehuset. Talmente puntuale da essere quasi patetica, rifletté. Chi è così puntuale ha bisogno di qualcosa. Un paio di minuti di ritardo l'avrebbero probabilmente messa in una condizione di superiorità.