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Parvero passare delle ore, ma in realtà, tempo qualche minuto, eravamo graziosamente librati a ottomila e passa metri, tra il fantastico picco del nord, l’Heng Shan, e la cresta che ospitava il Hsuan-k’ung Ssu. Mentre scendevamo, avevo visto il terminatore correre da est e secondo la nave qui adesso era tardo pomeriggio. Presi il binocolo, uscii sulla loggia e guardai. Vedevo chiaramente il tempio. Lo vedevo, ma non potevo crederci.

Quello che era parso un semplice gioco di luci e di ombre sotto le gigantesche, striate, sporgenti lastre di granito grigio, era una serie di costruzioni che si estendevano a est e a ovest per molte centinaia di metri. Notai subito l’influsso asiatico: edifici a forma di pagoda, con tetti a punta e cornicioni dal margine rivolto all’insù, le cui tegole dorate brillavano ai vividi raggi del sole; finestre rotonde e porte circolari nelle sezioni inferiori della sovrastruttura, di mattoni; ariosi portici di legno, con ringhiere riccamente intagliate; delicate colonne di legno dipinte del colore del sangue secco; striscioni rossi e gialli che ricadevano da grondaie, da ingressi, da ringhiere; complicati intagli sulle travi del tetto e sui merli delle torrette; ponti sospesi e scale festonate di, l’avrei appreso in seguito, mulini e bandierine di preghiera, che presentavano a Buddha una orazione ogni volta che una mano li girava o il vento le agitava.

Il tempio era ancora in costruzione. Vedevo legname grezzo portato sulle piattaforme più alte, figure umane scalpellare la parete della cresta, impalcature, rozze scalette a pioli, grossolani ponti che in pratica erano poco più di fibre vegetali intrecciate e corde da scalata per corrimano, figure in piedi che tiravano ceste vuote su per quelle scalette e quei ponti, altre figure chine che portavano giù su un largo lastrone ceste piene di pietre e le scaricavano quasi tutte nel vuoto. Eravamo abbastanza vicino e quindi vedevo che molte di quelle figure umane indossavano vesti dai colori vivaci, lunghe quasi alla caviglia, alcune svolazzavano nel gagliardo vento che colpiva la parete rocciosa, e che quelle vesti parevano pesanti e foderate per proteggere dal freddo. Più tardi avrei appreso che erano gli onnipresenti chuba e che potevano essere di lana di zigocapra, pesante e impermeabile, o di seta per le cerimonie o addirittura di cotone, che però era raro e molto ricercato.

Non mi fidavo tanto a mostrare ai locali la nostra nave, non volevo provocare il panico o un attacco con lance laser o chissà cosa, ma non avevo alternativa. Distavamo ancora parecchi chilometri e perciò saremmo stati al massimo un insolito luccichio di sole su metallo scuro librato contro il bianco sfondo del picco settentrionale. Mi ero augurato che ci ritenessero semplicemente uno dei tanti uccelli (dall’alto, la nave e io avevamo visto parecchi uccelli, molti dei quali avevano un’apertura alare di diversi metri) ma la mia speranza andò delusa: vidi alcuni operai del tempio abbandonare il lavoro e guardare nella nostra direzione, imitati poi da altri e da altri ancora. Nessuno fu preso dal panico. Non ci fu una corsa a cercare rifugio o ad armarsi (non c’erano armi in vista da nessuna parte) ma era chiaro che ci avevano scorti. Guardai due donne correre su per la serie ascendente di edifici del tempio, ponti sospesi, scalinate, ripide scale a pioli e la penultima impalcatura, fino alla piattaforma orientale, dove il lavoro pareva consistere nel taglio di fori nella parete rocciosa. Lassù c’era una sorta di baracca da cantiere edile: una delle donne scomparve all’interno e ne uscì quasi subito in compagnia di parecchie persone di statura più alta, tutte in vesti lunghe e ampie.

Col cuore che mi batteva forte, aumentai l’ingrandimento del binocolo: dalla baracca uscivano volute di fumo e non potevo dire con certezza se la figura più alta fosse Aenea. Ma tra i veli di fumo turbinante colsi una rapida visione di capelli biondo castano, non tanto lunghi da sfiorare le spalle, e per un momento abbassai il binocolo e mi limitai a fissare la lontana parete, sorridendo come un idiota.

"Fanno segnalazioni" mi avvertì la nave.

Alzai di nuovo il binocolo. Un’altra persona, una donna penso, ma con capelli molto più scuri, agitava due bandierine da segnalazione.

"È un antico codice di segnali" disse la nave. "Si chiama Morse. Le prime parole sono…"

«Silenzio» intimai. Nella Guardia nazionale insegnavano il codice Morse e in una circostanza me n’ero servito sull’Artiglio di ghiaccio, quando avevo usato due pezzi di benda insanguinata per chiamare gli skimmer ambulanza.

VAI… ALLA… FORRA… DIECI… CHILOMETRI… A… NORDEST.

RESTA… LÌ.

ASPETTA… ISTRUZIONI.

«Ricevuto, Nave?» domandai.

"Sì." Il tono della nave pareva sempre freddo, se mi ero rivolto a lei con scortesia.

«Allora andiamo. Mi pare di vedere una forra, circa dieci chilometri a nordest. Manteniamoci il più lontano possibile e arriviamo da est. Non credo che dal tempio riusciranno a vederci e da quella parte non scorgo edifici lungo la parete dello strapiombo.»

Senza altri commenti la nave si spostò in fuori, girò, tornò indietro lungo la parete rocciosa a picco, finché non fu di fronte alla forra, un taglio verticale che scendeva per alcune migliaia di metri dalla zona di ghiaccio e di neve molto più in alto e a un certo punto terminava, a circa quattrocento metri sul livello del tempio adesso nascosto dalla curvatura della roccia verso ovest.

La nave si librò in verticale fino a trovarsi a soli cinquanta metri dal fondo della forra. Notai con sorpresa alcuni torrenti scorrere sui ripidi fianchi rocciosi della forra, cadere nel centro della voragine e poi riversarsi nel vuoto, formando una cascata. Dappertutto c’erano alberi e muschi e licheni e piante in fiore: prati che salivano per molte centinaia di metri lungo i torrenti e che alla fine si mutavano in semplici striature di licheni multicolori che proseguivano verso i livelli di ghiaccio in alto. Sulle prime fui sicuro che lì non ci fosse segno d’intrusione umana, poi vidi le cornici (larghe appena da starci in piedi, pensai) scalpellate lungo la parete nord e i sentieri nel muschio verde brillante e le pietre disposte ad arte per guadare il corso d’acqua; allora notai la minuscola costruzione segnata dalle intemperie, troppo piccola per essere una baracca, più simile a un gazebo con finestre, che si trovava sotto sempreverdi scolpiti dal vento lungo il fiume, quasi al culmine della forra verdeggiante.

Indicai la costruzione: la nave si mosse da quella parte e restò librata nei pressi del gazebo. Capii perché sarebbe stato difficile, se non impossibile, atterrare lì. La nave del console non era poi molto grande (per secoli era rimasta nascosta nella torre di pietra del vecchio poeta, nella città di Endymion) ma, anche se fosse atterrata in verticale sulle pinne o sui sostegni estensibili, avrebbe schiacciato alberi, erba, muschi, piante fiorite. Parevano cose troppo rare, su quel mondo di rocce verticali, per distruggerle in quel modo.

Perciò la nave rimase librata. E aspettammo. Una trentina di minuti dopo il mio arrivo, una giovane donna svoltò nel sentiero, dalla parte delle cornici di roccia, e ci salutò con entusiasmo, agitando il braccio.

Non era Aenea.

Rimasi deluso, lo ammetto. Il desidero di rivedere la mia giovane amica era diventato un’ossessione: sospetto d’avere avuto, in quel periodo, assurde fantasticherie sulla nostra riunione: Aenea e io ci correvamo incontro, in un prato fiorito, lei di nuovo la bambina undicenne, io il suo difensore, e ridevamo per il piacere di rivederci e io la sollevavo da terra e la facevo girare in tondo, la tiravo in aria…

Be’, il prato fiorito c’era. La nave restò librata e morfizzò una scaletta che scendeva fino al prato punteggiato di fiori e si posava accanto al gazebo. La giovane donna attraversò il torrente, saltando di pietra in pietra, con perfetto equilibrio, e venne sorridendo alla mia volta, su per la montagnola erbosa.

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