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Rabbrividisco, mentre il vento ulula intorno a noi.

Per gli ultimi duecento metri le corde fisse penzolano sopra ghiaccio verticale. A. Bettik e io abbiamo nella reticella ramponi pieghevoli, ma ne facciamo a meno e continuiamo il faticoso rituale: jumar-aggancio-passo-liberare staffe-riposare un secondo-jumar-aggancio-passo-riposo-jumar. Impieghiamo quasi quaranta minuti a salire quei settecento metri. Quando mettiamo piede sulla cresta di ghiaccio che funge da piattaforma, il buio è già abbastanza fitto.

T’ien Shan ha cinque lune: quattro sono asteroidi catturati, ma seguono un’orbita abbastanza bassa da riflettere un bel po’ di luce; la quinta è grande quasi quanto la Luna della Vecchia Terra, ma segnata sul quadrante superiore destro da un solo, enorme cratere d’impatto i cui raggi si allargano come una lucente ragnatela verso ogni angolo visibile della sfera. Ora questa grossa luna, l’Oracolo, si leva a nordest, mentre A. Bettik e io avanziamo lentamente a nord lungo la stretta cresta di ghiaccio, agganciandoci a cavi fissi per non essere sbattuti via dal vento glaciale che ora si proietta giù dalla corrente a getto.

Mi sono calato sugli occhi il cappuccio termico e mi sono messo la maschera facciale, ma il vento gelido mi fa bruciare ugualmente gli occhi e ogni pezzetto di pelle esposta. Qui non possiamo indugiare a lungo. Ma l’impulso a mettersi in piedi e a guardare è forte in me, come sempre quando sono al terminale dei cavi della cresta K’un Lun e guardo il Regno di mezzo e il mondo delle Montagne del cielo.

Mi fermo sul campo di ghiaccio, piatto e aperto, all’inizio dello scivolo, per dare un’occhiata intorno. A sud e a ovest, dall’altra parte della zangola di nubi illuminata dalle lune e perduta nelle profondità, la cresta Phari splende alla luce dell’Oracolo. In alto, torce lungo la cresta a nord di Phari segnano chiaramente la via Pedonale e molto più a nord si scorgono i ponti sospesi illuminati. Al di là del mercato Phari c’è un bagliore nel cielo e immagino che sia la luce di torce di Potala, Palazzo d’inverno per Sua Santità il Dalai Lama e sede della più sfarzosa architettura di pietra del pianeta. Potala si trova a qualche chilometro a nord di qui e la Pax ha appena avuto in concessione una enclave nei pressi del Rhan Tso, dove a sera cade l’ombra dello Shivling, il "Fallo di Shiva". Sorrido sotto la maschera termica: mi immagino i missionari cristiani rimuginare su quella sconcezza pagana.

Al di là di Potala, centinaia di chilometri verso ovest, c’è il regno di creste di Koko Nor, con i suoi innumerevoli villaggi sospesi e i suoi pericolosi ponti. Molto a sud, lungo la grande dorsale detta Lobsang Gyatso, si estende il territorio della setta Cappello Giallo, che termina al picco Nanda Devi, dove si dice abiti la dea indù della felicità. A sudovest di queste zone, così lontano che vi splende ancora il sole, c’è Muztagh Alta con le decine di migliaia di abitanti islamici che custodiscono le tombe di Ali e di altri santi dell’Isiam. A nord di Muztagh Alta le creste corrono in territori che non ho mai visto, nemmeno dall’orbita durante l’avvicinamento, e che ospitano le alte case degli Ebrei Erranti lungo le vie di accesso al monte Sion e al monte Moriah, dove le città gemelle di Abramo e Isacco vantano le migliori biblioteche di T’ien Shan. A nord e a ovest di quelle città si alza il monte Sumeru — il centro dell’universo — e il picco Harney, anch’esso stranamente il centro dell’universo: tutt’e due si trovano seicento chilometri a sudest dei quattro picchi San Francisco, dove la popolazione hopi-eschimese sbarca il lunario sulle gelide creste e nelle fenditure ricche di felci, anch’essa sicura che i loro picchi delimitino il centro dell’universo.

Dritto a nord posso vedere la più grande montagna del nostro emisfero e il limite settentrionale del nostro mondo, dal momento che, alcuni chilometri più a nord di qui, la cresta scompare sotto nubi di fosgene: il Chomo Lori, "Regina di neve". Il tramonto illumina ancora la vetta ghiacciata del Chomo Lori, mentre l’Oracolo bagna di luce più delicata le sue creste orientali.

Dal Chomo Lori, le creste K’un Lun e Phari corrono a sud e la distanza fra l’una e l’altra aumenta fino a diventare insuperabile per i ponti a sud della funivia che abbiamo appena percorso. Giro la schiena al vento del nord, guardo a sud e a est, seguendo la sinuosa linea della cresta K’un Lun, e immagino di poter vedere le torce, duecento chilometri più a sud, dove la città di Hsi wang-mu, "Regina Madre dell’Ovest" ("ovest" è la zona a sud e a ovest del Regno di mezzo) ospita circa trentacinquemila persone al sicuro nei suoi stretti passi e nelle sue fenditure.

A sud di Hsi wang-mu (solo la vetta è visibile sopra la corrente a getto) si alza il grande picco del monte Koya, dove, secondo i fedeli che vivono in città scavate nel ghiaccio sulle pendici inferiori, Kobo Daishi, il fondatore del buddhismo Shingon, giace inumato in una tomba di ghiaccio priva d’aria, in attesa delle giuste condizioni per emergere dalla sua trance meditativa.

A est del monte Koya, fuori vista per la curvatura planetaria, c’è il monte Kalais, casa di Kubera, il dio indù della ricchezza, e anche di Shiva, che evidentemente non bada ai mille e più chilometri di spazio nuvoloso che lo separano dal proprio fallo. A quanto si dice, anche Parvati, moglie di Shiva, vive sul monte Kalais, ma non si sa che cosa pensi di quella separazione.

Durante il primo anno di permanenza sul pianeta, A. Bettik è stato sul monte Kalais e mi ha raccontato che il picco è bellissimo, uno dei più alti di T’ien Shan, quasi ventimila metri sul livello del mare: lo ha descritto come una scultura marmorea che si alzi da un piedistallo di roccia venata. Mi ha anche detto che sulla cima del monte Kalais, in alto sui campi di ghiaccio, dove l’aria è troppo rarefatta per consentire la respirazione e la formazione di vento, si trova un tempio di lega di carbonio dedicato alla divinità buddhista della montagna, Demchog, "Il supremamente felice", un gigante alto almeno dieci metri, azzurro come il cielo, drappeggiato di collane di teschi e gioiosamente abbracciato nella danza alla sua consorte. A. Bettik ha detto che quella divinità dalla pelle azzurra gli assomiglia un poco. Il palazzo costituisce il centro preciso della vetta arrotondata che si trova al centro di un mandala formato da minori picchi innevati e l’insieme abbraccia il sacro cerchio, il mandala fisico, dello spazio divino di Demchog, dove chi medita scoprirà la saggezza che lo libera dal ciclo di sofferenza.

In vista del mandala del monte Kalais, ha detto A. Bettik, e tanto lontano verso sud da essere sepolto sotto luccicanti ghiacciai profondi chilometri, si alza il picco Helgafell, la "Sala d’idromele dei morti", dove alcune centinaia di islandesi giunti durante l’Egira sono tornati alle usanze vichinghe.

Guardo a sudovest. Se un giorno potessi percorrere l’arco del circolo polare antartico, laggiù, incontrerei picchi come il Gunung Agung, l’ombelico del mondo (su T’ien Shan ce ne sono una decina), dove il festival Eka Dasa Rudra adesso ha iniziato da ventisette anni il suo ciclo di seicento e dove le donne balinesi si dice danzino con grazia e leggiadria impareggiabili. Più di mille chilometri a nordovest, lungo l’alta cresta dal Gunung Agung, c’è il Kilimachaggo, dove gli abitanti delle terrazze inferiori, dopo un appropriato intervallo, dissotterrano i propri morti dalle fenditure piene di terra grassa e portano le ossa molto al di sopra dell’atmosfera respirabile, grazie a dermotute cucite a mano e maschere a pressione, per riseppellire i parenti nel ghiaccio duro come pietra, a un’altitudine di circa diciottomila metri, in modo che dal ghiaccio i teschi guardino verso la vetta, in eterna speranza.

Al di là del Kilimachaggo, l’unico picco che conosco per nome è il Croagh Patrick, che ha la fama di essere privo di serpenti. Ma per quanto ne so, non ci sono serpenti da nessuna parte, su Montagne del cielo.

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