Lo guardo, penso che voglia scherzare. Gli aviatori sono dei pazzi, una razza a parte. Lanciano il loro parapendio dalle alte costruzioni, prendono forza ascensionale dalle grandi pareti di roccia, attraversano gli ampi spazi fra le creste e i picchi dove non esistono cavi né ponti, guardano gli uccelli, cercano le termali come se ne andasse della vita; be’, la loro vita dipende proprio da quelle correnti d’aria calda. Non ci sono zone piatte dove un aviatore può posarsi, se cambia l’infido vento o se la spinta ascensionale viene a mancare o se il parapendio ha un guasto. L’atterraggio forzato su una parete di cresta significa morte quasi certa. La discesa nelle nuvole sottostanti significa morte matematica. Il minimo errore nel valutare il vento, le correnti ascensionali, le correnti verticali, la corrente a getto, qualsiasi errore, significa morte. Per questo motivo gli aviatori vivono in solitudine, fanno parte di una setta segreta e chiedono una fortuna per eseguire gli ordini del Dalai Lama e consegnare messaggi da Potala o per trascinare nel cielo striscioni di preghiera durante qualche cerimonia buddhista o per portare comunicazioni urgenti da un mercante al suo ufficio in modo da battere la concorrenza o (così dice la leggenda) per visitare il picco orientale T’ai Shan, separato dal resto di T’ien Shan da più di cento chilometri di aria e di nuvole micidiali, e isolato per vari mesi nell’arco dell’anno locale.
«Non mi pare opportuno affidare a un aviatore una simile notizia» dico.
A. Bettik annuisce. «Sì, signor Endymion, ma i parapendii si possono comprare qui al mercato. Al banco della Gilda degli aviatori. Potremmo comprarne due e seguire la via più breve per il ritorno. Hanno prezzi molto elevati, ma potremmo vendere alcune zigocapre da soma.»
Non so mai quando il mio amico androide scherza. Ricordo l’ultima volta in cui mi sono trovato appeso a una paravela e devo farmi forza per non rabbrividire. «Hai mai usato il parapendio su questo pianeta?» replico.
«No, signor Endymion.»
«Su qualche altro pianeta?»
«No, signor Endymion.»
«Quali sarebbero, secondo te, le nostre probabilità, se provassimo?»
«Una su dieci» risponde senza un attimo d’esitazione.
«E quali sono le nostre possibilità con cavi e scivolo, a questa tarda ora del giorno?»
«All’inarca nove su dieci prima del buio. Meno, se il tramonto ci coglie ancora sullo scivolo.»
«Allora prendiamo cavi e scivolo» concludo.
Aspettiamo nella breve coda di gente che lascia il mercato e prende i cavi; poi è il nostro turno di salire sulla piattaforma di partenza. Il ripiano di bambù si trova circa venti metri sotto l’impalcatura più bassa del mercato e sporge sull’abisso cinque metri più del resto di Phari. Sotto di noi, per migliaia di metri, non c’è altro che aria; e al fondo di quel vuoto c’è solo l’onnipresente mare di nuvole che si frange contro le creste di roccia sporgerti verso l’alto, simile a una bianca marea che batta contro palificazioni di pietra. Vari chilometri più in basso, sotto quelle nuvole, ci sono gas velenosi e l’agitato mare acido che copre tutto il pianeta tranne le montagne.
L’addetto ai cavi ci fa segno di avanzare; A. Bettik e io saliamo insieme sulla piattaforma di salto. Da quel punto di connessione, venti o più cavi scendono in diagonale verso l’abisso e creano una nera ragnatela a perdita d’occhio. Il più vicino terminale dei cavi si trova a più di un chilometro e mezzo verso nord, su un piccolo dente di roccia che si staglia contro il bianco splendore del Chomo Lori, "Regina di neve", ma noi andiamo a est, al di là del grande vuoto fra le creste: il nostro punto d’arrivo dista più di venti chilometri e il cavo che scende in quella direzione si fonde nel bagliore serale della lontana parete di roccia e pare finire a mezz’aria. E la nostra destinazione si trova più di trentacinque chilometri al di là di quel punto, a nord e a est. A piedi impiegheremmo circa sei ore per fare il lungo viaggio a nord lungo la cresta Phari e poi a est, seguendo il sistema di ponti e di passerelle. Viaggiando per cavo e scivolo dovremmo impiegare metà tempo, ma l’ora è tarda e lo scivolo è molto pericoloso. Lancio ancora un’occhiata al sole basso e mi domando di nuovo se ho fatto la scelta più assennata.
«Pronti» brontola l’addetto ai cavi, un ometto bruno in chuba a riquadri cuciti insieme, tutto macchiato. Mastica radice di besil e si gira a sputare dal bordo, mentre ci accostiamo alla fune d’aggancio.
«Pronto» diciamo all’unisono A. Bettik e io.
«Mantenete la distanza» ringhia l’addetto. Mi fa segno di andare per primo.
Allento dalla imbracatura a corpo intero le bretelle da viaggio, faccio scivolare le mani sulla braca piena di attrezzi che chiamiamo reticella, trovo a tentoni la carrucola a due posizioni, la aggancio con un moschettone all’anello della bretella, faccio passare in un altro moschettone un attacco Munter come freno di riserva in aggiunta al freno della carrucola, trovo il mio migliore moschettone, lo uso per unire intorno al cavo le flange della carrucola, poi passo nei primi due moschettoni la fune di sicurezza, aggiungo alla fune un corto nodo Prusik e infine aggancio quest’ultimo alla imbracatura pettorale sotto le bretelle. Tutto questo richiede meno di un minuto. Alzo le mani, ingrano nella carrucola i comandi dell’anello a D e faccio qualche salto per provare sia il collegamento della carrucola sia gli agganci. Tutto regge bene.
L’addetto si sporge a ispezionare con occhi esperti l’aggancio dell’anello a doppio D e la morsa della carrucola. Muove la carrucola avanti e indietro, assicurandosi che i cuscinetti quasi privi di attrito scivolino dolcemente nella loro sede. Infine, con tutto il suo peso, fa forza sulle mie spalle e sull’imbracatura, tenendosi appeso come un secondo sacco da montagna; poi mi lascia e si assicura che anelli e freni reggano. Sono certo che non gliene frega niente se precipito e muoio ma, se la carrucola dovesse incepparsi da qualche parte lungo i venti chilometri di cavo in monofilamento intrecciato che corrono verso l’invisibile, toccherà a lui riparare il guaio, appeso alle staffe o a un seggiolino, sopra chilometri d’aria, mentre pendolari in attesa fremono. Pare soddisfatto dell’attrezzatura.
«Vai» dice e mi dà una manata sulla spalla.
Salto nel vuoto e intanto sposto più in alto sulla schiena il sacco da montagna. Le cinghie dell’imbracatura si tendono, il cavo s’incurva, i cuscinetti della carrucola ronzano appena e io comincio a scivolare più velocemente, man mano che rilascio il freno, pollici sui comandi dell’anello a D. Nel giro di qualche secondo saetto lungo il cavo. Sollevo le gambe e mi accomodo sul sedile dell’imbracatura, in quel modo che mi è diventato naturale negli ultimi tre mesi. La cresta K’un Lun, la nostra destinazione, brilla vivida, mentre l’ombra del tramonto comincia a riempire l’abisso sotto di me e l’ombra della sera si muove giù per la parete della cresta Phari alle mie spalle.
Percepisco nel cavo un lieve mutamento di tensione e un ronzio: A. Bettik inizia la discesa dietro di me. Mi lancio un’occhiata alle spalle e lo vedo abbandonare la piattaforma di salto, gambe dritte davanti a sé nella forma approvata, corpo che ballonzola sotto le bretelle elastiche. Riesco appena a scorgere la catena che collega al freno della carrucola la banda di cuoio del suo braccio sinistro. A. Bettik agita il braccio e io rispondo al saluto, ruotando nell’imbracatura per tenere d’occhio il cavo che sibila mentre continuo a saettare sopra l’abisso. A volte qualche uccello si posa sul cavo per riposare. A volte vi si forma all’improvviso una concrezione di ghiaccio. Molto raramente c’è la carrucola impigliata di qualcuno che ha avuto un incidente o che si è staccato dall’imbracatura per ragioni note solo a lui. Ancora più raramente, ma abbastanza da non dimenticarsene, qualcuno con un rancore e vaghe tendenze psicopatiche si ferma ad avvolgere intorno al cavo una zeppa o una camma a molla, lasciando una piccola sorpresa per il prossimo che giunge a gran velocità. La pena per questo crimine è la morte e il colpevole viene spinto giù dalla più alta piattaforma di Potala o di Jo-kung; ma questo è di poca consolazione per chi incontra per primo la zeppa o la camma.