Литмир - Электронная Библиотека
A
A

Nelle circa trenta ore dal perentorio annuncio di Aenea riguardante la mia imminente partenza via teleporter, avevo pensato che quel viaggio sarebbe stato simile all’altro: da Vettore Rinascimento alla Vecchia Terra, avevamo toccato pianeti disabitati o abbandonati, come Hebron, Nuova Mecca, Bosco Divino, e pianeti di cui nemmeno conoscevamo il nome, come il mondo giungla dove era rimasta nascosta la nave del console. In uno dei pochi pianeti dove avevamo incontrato abitanti (ironia della sorte, si trattava di un pianeta oceanico scarsamente popolato, Mare Infinitum) il contatto era risultato catastrofico per tutti: io avevo fatto saltare gran parte di una loro piattaforma galleggiante; loro mi avevano catturato, pugnalato, sparato e quasi annegato. In quelle traversie avevo perduto alcuni degli oggetti più preziosi portati con noi in quel viaggio, compreso l’antico tappeto Hawking che risaliva ai giorni della leggenda di Siri e di Merin, e l’altrettanto antico revolver calibro 45 che mi piaceva credere fosse appartenuto alla madre di Aenea, Brawne Lamia.

Ma per la maggior parte del viaggio il fiume Teti aveva portato Aenea, A. Bettik e me in pianeti disabitati (sciaguratamente disabitati, nel caso di Hebron e di Nuova Mecca, dove pareva che un qualche orrore avesse portato via l’intera popolazione) e nessuno ci aveva dato fastidio.

Qui era diverso. Lusus era vivo e formicolante di vita. Per la prima volta capii perché quelle strutture planetarie a nido d’ape fossero chiamate alveari.

Viaggiando insieme in regioni disabitate, la ragazza, l’androide e io potevamo contare esclusivamente sui nostri mezzi. Adesso, da solo e in pratica disarmato sul piccolo kayak, mi trovai a salutare col braccio gli agenti di polizia della Pax e i preti rinati lusiani che mi passavano accanto. In quel punto il canale era largo non più di trenta metri, rivestito di cemento e di plastica, senza tributari né nascondigli. C’erano zone buie sotto i ponti e i sovrappassi, come sotto l’arcata del teleporter più a monte, ma il traffico fluviale era un flusso continuo anche in quelle zone buie. Impossibile nascondersi da qualche parte.

Per la prima volta meditai sulla follia del viaggio per teleporter. I miei vestiti sarebbero stati fuori posto: non appena fossi uscito dal kayak, avrebbero dato nell’occhio. La mia costituzione fisica era sbagliata. Il mio dialetto di Hyperion sarebbe risultato bizzarro. Non avevo denaro né chip d’identità, patente VEM, carte di credito, documenti parrocchiali della Pax, luogo di residenza. Fermai per un minuto il kayak davanti a un bar sul lungofiume (dai ventilatori si diffondeva il profumo di bistecca arrosto o comunque di cibo e avevo l’acquolina per la fame; la stessa brezza portava il forte odore di lievito che faceva pensare a vasche di fermentazione e a birra fredda) ma capii che sarei stato arrestato nel giro di due minuti, se avessi messo piede in un simile locale.

Certo, c’era chi viaggiava fra i pianeti della Pax (in genere miliardari, operatori economici e avventurieri disposti a spendere mesi in crio-fuga e anni in debito temporale, viaggiando fra le stelle sui carghi della Pax Mercatoria, comodamente rincantucciati nella crucimorfica certezza che, al loro ritorno, lavoro e casa e famiglia sarebbero stati lì ad aspettare, nello stabile universo cristiano) ma non accadeva di frequente e nessuno viaggiava tra i pianeti senza denaro e senza il permesso della Pax. Appena fossi entrato in quel caffè o bar o ristorante o che diavolo era, probabilmente qualcuno avrebbe chiamato la polizia locale o i militari della Pax. La prima perquisizione avrebbe rivelato che non portavo il crucimorfo: un pagano in un universo di cristiani rinati.

Mi leccai le labbra e lasciai brontolare lo stomaco; con braccia appesantite dalla fatica per la maggiore gravità e con occhi umidi per mancanza di sonno e per la profonda frustrazione, mi allontanai dal caffè e proseguii a valle, con la speranza che il prossimo teleporter fosse vicino e non lontano.

E qui resisto alla tentazione di raccontare le cose meravigliose che vidi e ascoltai, le bizzarre persone che scorsi da lontano e in casuali incontri da vicino. Non ero mai stato su un pianeta così abitato, così affollato, così chiuso in se stesso come Lusus: avrei potuto trascorrere anche un mese a esplorare il brulicante alveare che vedevo di sfuggita dal fiume incanalato nel cemento.

Dopo sei ore di viaggio, passai finalmente sotto l’arcata del teleporter e sbucai su Freude, un pianeta pieno d’animazione, assai popoloso, di cui sapevo ben poco e al quale non sarei nemmeno riuscito a dare un nome, se non avessi potuto consultare i file di navigazione della nave. Su Freude riuscii a dormire, dopo avere nascosto il kayak in una tubatura fognaria del diametro di cinque metri, rannicchiato sotto ciocche di fibroplastica industriale impigliate in una barriera di filo spinato.

Dormii un giorno e una notte standard filati, ma su Freude i giorni sono di trentanove ore standard e così era solo la sera del giorno del mio arrivo quando trovai l’arcata seguente, meno di cinque chilometri a valle del fiume, e mi teleportai di nuovo.

Dal soleggiato Freude, pieno di cittadini della Pax in eleganti abiti di stoffa variopinta e cappe dai colori brillanti, il fiume mi portò su Nevermore, con i suoi tetri villaggi scavati nella roccia e i suoi castelli di pietra appollaiati sulle pareti dei canyon, sotto un cielo perpetuamente fosco. Di notte su Nevermore le comete striavano il cielo e creature volanti simili a corvi, più pipistrelli giganti che uccelli veri e propri, sbattevano ali coriacee sopra il fiume e oscuravano con il loro corpo scuro il bagliore delle comete.

Gli equipaggi di zattere commerciali mi diedero la voce e io risposi senza smettere di vogare verso un tratto di acqua rotta che rischiò di rovesciare il kayak e di sicuro mise a dura prova la mia scarsa abilità di canottiere. Dai castelli punteggiati di finestre come occhi penetranti proveniva l’ululato di sirene, mentre con furiosi colpi di pagaia varcavo l’arcata del teleporter. Da Nevermore mi ritrovai a sudare nel sole desertico di un laborioso piccolo pianeta che secondo il comlog si chiamava Vitus-Gray-Balianus B. Non avevo mai sentito nominare quel pianeta, neppure nei vecchi atlanti dell’epoca dell’Egemonia che nonna teneva nel suo carrozzone e che, appena potevo, consultavo a lume di fotopenna.

Nel viaggio fino alla Vecchia Terra, il fiume Teti aveva già portato Aenea, A. Bettik e me su pianeti desertici, i mondi stranamente vuoti di Hebron e Nuova Mecca con i loro deserti privi di vita e le città abbandonate. Ma qui, su Vitus-Gray-Balianus B, case di mattoni crudi si ammassavano lungo il fiume e più o meno a ogni chilometro incontravo una chiusa o una diga, dove gran parte dell’acqua era aspirata per l’irrigazione dei campi verdeggianti che fiancheggiavano le rive. Per fortuna il fiume serviva da strada di grande comunicazione e io ero sbucato, dall’ombra dell’antica arcata del teleporter, nella scia di una grossa chiatta; così continuai a vogare con calma in mezzo al traffico fluviale: barche a remi, zattere, chiatte, rimorchiatori, motoscafi elettrici, case galleggianti e perfino qualche occasionale chiatta a levitazione EM librata a tre quattro metri dalla superficie del fiume.

Qui la gravità era leggera, probabilmente meno di due terzi di quella della Vecchia Terra o di Hyperion, e a volte pensavo che i colpi di pagaia avrebbero sollevato dall’acqua me e il kayak. Ma se la gravità era leggera, la luce del sole pesava su di me come un gigantesco palmo sudato. In un’ora di voga avevo esaurito la mia seconda bottiglia d’acqua e sapevo di dovermi fermare per trovare da bere.

Si penserebbe, su un pianeta a gravità inferiore, che gli abitanti siano degli spilungoni — l’antitesi dei barilotti lusiani — ma quasi tutte le persone, uomini, donne e bambini, che vidi nei viottoli e nelle alzaie lungo il fiume erano basse e tarchiate quasi come i lusiani. I loro abiti erano variopinti come quelli dei residenti di Freude, ma qui ogni persona portava un solo brillante colore: vestiti a tuta assai aderenti, rosso scarlatto dalla testa ai piedi, mantelli e cappe di un ceruleo intenso, abiti lunghi e tailleur di un verde smeraldo abbacinante accompagnati da elaborati copricapi e foulard in tinta, strascichi di chiffon giallo vivo e vividi turbanti giallo ambra. Notai che pure le porte e le persiane delle case di mattoni crudi, delle botteghe e delle locande erano dipinte di quegli stessi distinti colori e mi domandai che cosa potessero significare: caste? preferenze politiche? stato sociale o economico? una sorta di segnale di parentela? Qualsiasi cosa fosse, una volta sceso a terra per trovare da bere, non mi sarei potuto inserire nel quadro, vestito com’ero di sbiadito cotone cachi.

29
{"b":"121439","o":1}