Mi ero domandato, quando nella Yggdrasill eravamo impegnati senza sosta a teleportarci su vari pianeti e a passare da sistema solare a sistema solare, come Aenea evitasse di farci comparire nel cuore di una montagna o a cinquanta metri dalla superficie o, nel caso di spostamenti della Yggdrasill, dentro una stella. Mi pareva che teleportarsi alla cieca, come un non pianificato balzo Hawking, fosse casuale e pericoloso. Invece, quando Aenea si teleportava, eravamo sempre emersi esattamente dove dovevamo emergere. Ora capivo perché.
Aenea ascoltava la musica delle sfere. Entrava in risonanza con il Vuoto che lega, che a sua volta risonava alla vita senziente e al pensiero, e poi sfruttava la quasi incontenibile energia del Vuoto per… per muovere il primo passo. Per viaggiare, tramite il Vuoto, dove quelle voci aspettavano. Una volta Aenea aveva detto che il Vuoto attingeva all’energia delle quasar, dei centri galattici in esplosione, dei buchi neri e della materia nera. Sufficiente, forse, a spostare nello spaziotempo alcune forme di vita organica e a depositarle nel posto giusto.
L’amore è il primo motore dell’universo, aveva detto una volta Aenea. Aveva scherzosamente affermato di essere il Newton che un giorno avrebbe spiegato la fisica basilare di quella fonte d’energia largamente intatta. Non era vissuta abbastanza per riuscirci.
Ma capii ora che cosa aveva voluto dire e come la faccenda funzionava. Gran parte della musica delle sfere era creata dalle eleganti armonie e dalle variazioni di accordi dell’amore. Teleportarsi liberamente dove la persona amata aspetta. Imparare un luogo dopo averlo visitato con la persona o le persone amate. Amare la vista di nuovi luoghi.
All’improvviso capii perché i nostri primi mesi insieme erano stati (così mi era parso a quel tempo) inutili vagabondaggi per teleporter da pianeta a pianeta: Mare Infinitum, Qom-Riyadh, Hebron, Sol Draconis Septem, il pianeta senza nome dove avevamo lasciato la nave, tutti gli altri, perfino la Vecchia Terra. Non c’erano teleporter ancora in funzione. Aenea aveva portato con sé A. Bettik e me su quei pianeti. Li aveva toccati, ne aveva annusato l’aria, aveva sentito sulla pelle la luce del loro sole, li aveva visitati in compagnia di amici, di qualcuno che amava, per imparare la musica delle sfere, in modo da suonarla più tardi.
E la mia odissea da solo: il kayak che dalla Vecchia Terra si teleportava su Lusus e sul pianeta di nuvole e in tutti gli altri posti. Aenea era stata l’energia dietro quei trasferimenti. Mi aveva mandato lì perché potessi assaporare quei luoghi e ritrovarli un giorno per mio conto.
Avevo pensato, anche mentre scrivevo la mia storia nel grafer che ora tengo sottobraccio qui nella cella/scatola di Schrödinger, di essere poco più che un compagno di viaggio in una serie di avventure picaresche. Ma tutto aveva uno scopo. Ero un innamorato che viaggiava con la persona amata, o verso la persona amata, in una partitura musicale di mondi. Una partitura che dovevo imparare a memoria, per poterla suonare di nuovo un giorno.
Chiusi gli occhi e mi concentrai, poi trascesi la concentrazione, passai in quello stato di vuoto mentale che avevo imparato su T’ien Shan. Ogni pianeta aveva il suo scopo. Ogni minuto aveva il suo scopo.
In quel calmo nulla mi aprii al Vuoto che lega e all’universo al quale risonava. Non avrei potuto farlo, capii, senza la comunione col sangue di Aenea, senza gli organismi nanotec su misura che ora dimoravano nelle mie cellule e che avrebbero dimorato nelle cellule dei miei figli. "No, non i miei figli" pensai subito. "Ma nelle cellule degli esseri umani che erano sfuggiti al crucimorfo. Nelle cellule dei loro figli." Non avrei potuto farlo, se non avessi imparato da Aenea. Non avrei potuto udire le voci che udii allora, cori più grandi di quanto avessi mai udito prima, se non avessi affinato la mia grammatica e la mia sintassi del linguaggio dei morti e dei vivi nei mesi di lavoro per raccontare la mia storia in attesa della morte.
Non avrei potuto farlo, capii, se fossi stato immortale. Questo grado di amore per la vita e per un’altra persona è concesso, capii una volta per tutte, non agli immortali, ma a quelli che vivono brevemente e sempre sotto l’ombra della morte e della perdita.
Mentre stavo lì ad ascoltare gli accordi sempre più vasti della musica delle sfere, in grado ora di individuare nel coro voci distinte — Martin Sileno, ancora vivo ma in pessime condizioni sul mio mondo natale; Theo, sul bellissimo pianeta Patto-Maui; Rachel, sul mondo di Barnard; il colonnello Kassad, sul rosso Marte; padre de Soya, su Pacem — e persino gli amabili accordi dei morti — Dem Ria su Vitus-Gray-Balianus B, il caro padre Glauco sul gelido Sol Draconis Septem, la voce di mia madre sul lontano Hyperion — udii anche le parole di John Keats, nella sua voce e nella voce di Martin Sileno e nella voce di Aenea:
Ma questa è l’umana vita: la guerra, le imprese,
la delusione, l’ansia,
le lotte dell’immaginazione, lontano e vicino,
tutte umane; portano in sé questo bene,
che sono ancora l’aria, il fine cibo,
per farci sentire vivi e per mostrare
quant’è quieta la morte. Dove c’è humus l’uomo cresce
sia per malerba sia per fiore; ma per me
non c’è profondità per intervenire…
In quel momento invece per me era vero il contrario: c’era profondità più che sufficiente per intervenire. In quel momento l’universo si faceva più profondo, la musica delle sfere cresceva da semplice coro a sinfonia trionfante come la Nona di Beethoven e capii che sarei stato sempre in grado di udirla quando avrei voluto o ne avessi avuto bisogno, che sarei sempre stato in grado di usarla per muovere il passo necessario per vedere colei che amavo oppure, se non ci riuscivo, per andare nel luogo dove ero stato con lei che amavo oppure, se non ci riuscivo, per trovare un posto da amare per la sua stessa bellezza e ricchezza.
Allora l’energia delle quasar e dei nuclei stellari in esplosione mi riempì. Fui trasportato su onde di energia più belle e più liriche perfino delle ali degli angeli Ouster viste scivolare lungo corridoi di luce. Il guscio di micidiale energia che era il mio carcere e cella della morte parve ora risibile, originale scherzo di Schrödinger, una corda per giochi da bambini stesa per terra intorno a me come pareti di prigione.
Mossi un passo fuori della scatola del gatto di Schrödinger e fuori del sistema solare di Armaghast.
Per un istante, mentre sentivo cadere e restare indietro per sempre i confini della prigione di Schrödinger, mentre esistevo da nessuna parte e dappertutto nello spazio, pur restando fisicamente intatto in corpo e stilo e grafer sottobraccio, provai un’ondata di vera e propria euforia, potente come i vertiginosi effetti del teleportarsi da soli. Libero! Ero libero! L’ondata di gioia fu così intensa da farmi venire voglia di piangere, di gridare nella circostante luce del non-spazio, di unire la mia voce al coro di voci dei vivi e dei morti, di cantare con le cristalline sinfonie delle sfere che salivano e ricadevano intorno a me come solidi frangenti musicali. Finalmente libero!
E allora ricordai che l’unica ragione per essere libero, l’unica persona che avrebbe giustificato quella libertà, era scomparsa. Aenea era morta. La gioia della fuga svanì all’improvviso, totalmente, sostituita da una semplice ma profonda soddisfazione per la libertà dopo tanti mesi di prigionia. L’universo mi pareva prosciugato di ogni colore, ma almeno adesso ero libero di andare dove volevo in quel reame monotono.
Dove sarei andato? Galleggiavo nella luce, mi teleportavo liberamente nell’universo, con stilo e grafer sotto il braccio, ed ero indeciso.
Hyperion? Avevo promesso di tornare da Martin Sileno. Potevo sentire la sua voce risonare con forza nel Vuoto, passato e presente; ma quella voce non avrebbe fatto parte del coro ancora a lungo. La vita che gli restava ormai poteva essere contata in giorni o meno. Ma non sarei andato su Hyperion. Non ancora.