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«Prendo il…» cominciai.

«No, non prendi niente» disse Aenea. Mi tirò a sé.

Anche il bacio richiede nuove tecniche, a gravità zero. I capelli di Aenea si raccolsero intorno alla testa come una corona illuminata dal sole, mentre le tenevo fra le mani il viso e la baciavo: labbra, occhi, guance, fronte, labbra di nuovo. Cominciammo a rotolare lentamente, sfiorando la parete liscia e luminosa. Uno di noi diede una spinta e rotolammo insieme nel centro della capsula ovale.

I nostri baci divennero più convulsi. Ogni volta che uno dei due si muoveva per tenere più stretto l’altro, cominciavamo a girare intorno al nostro invisibile centro di massa, braccia e gambe intrappolate mentre ci stringevamo più forte e giravamo più rapidamente. Senza liberarci e interrompere il bacio, protesi il braccio, aspettai che la parete tiepida come carne fosse a portata e fermai il movimento. Il contatto ci spinse via dalla parete e ci mandò di nuovo a roteare, piano piano, verso il centro.

Aenea interruppe il bacio e scostò per un attimo la testa, continuando a tenermi per le braccia e guardandomi. L’avevo vista sorridere diecimila volte negli ultimi dieci anni della sua vita, credevo di conoscerli tutti i suoi sorrisi, ma quello fu il più profondo, più antico, più misterioso e più birbante che avessi mai visto.

«Non muoverti» bisbigliò Aenea; facendo leggermente leva sul mio braccio, ruotò a mezz’aria.

«Aenea…» riuscii solo a dire e poi non potei dire niente. Chiusi gli occhi, dimentico di tutto tranne le sensazioni. Sentivo le sue mani, strette sulla parte posteriore delle gambe, tirarmi verso di lei.

Dopo un attimo le sue ginocchia si posarono sulle mie spalle, le sue cosce mi urtarono lievemente il petto. Allungai la mano verso l’incavo della sua schiena e tirai Aenea più vicino, strusciando la guancia contro il sodo muscolo della coscia interna. A Taliesin West, una delle cuoche aveva un gatto soriano. Spesso, la sera, quando me ne stavo seduto da solo sulla terrazza sud a guardare il tramonto e a sentire le pietre cedere il calore accumulato durante il giorno, aspettando il momento in cui Aenea e io ci saremmo seduti nel suo soggiorno a parlare di tutto e di niente, guardavo il gatto lappare la ciotola di panna. Ora visualizzai quel gatto, ma nel giro di qualche minuto non riuscii più a visualizzare niente, tranne l’immediata e irresistibile sensazione della mia amata che si apriva a me, del tenue sapore di mare, dei nostri movimenti simili al montare della marea, di tutti i miei sensi incentrati nella lenta ma crescente sensazione nel nucleo di me stesso.

Non saprei dire per quanto tempo continuammo a galleggiare a quel modo. Un eccitamento così irresistibile è come un fuoco che bruci tempo. L’intimità assoluta è una dispensa dalle esigenze spaziotemporali dell’universo. Solo le crescenti priorità della nostra passione e l’ineluttabile bisogno di aumentare sempre più la nostra vicinanza segnarono i minuti del nostro atto d’amore.

Aenea allargò ancora le gambe, si spostò, mi lasciò con la bocca ma non con la mano. Roteammo ancora nella luce sfumata, le sue dita e la mia erezione al centro del nostro lento giro. Ci baciammo, labbra umide, mentre Aenea rafforzava la stretta intorno a me. «Ora» bisbigliò. Ubbidii.

Se c’è un vero segreto per l’universo, è questo: quei primi secondi di ardore, di penetrazione, di completa accoglienza da parte dell’amata. Ci baciammo ancora, dimentichi del nostro lento rotolare, nella ricca luce che assumeva intorno a noi una calda intensità di cuore. Aprii gli occhi quanto bastava a vedere i capelli di Aenea ondeggiare come il mantello di Ofelia nel mare d’aria scuro come vino dove galleggiavamo. Avevo davvero l’impressione di tenere la mia amata nell’acqua di un mare salato e profondo, spinto a galla e privo di peso, il suo calore intorno a me come la marea montante, il nostro movimento regolare come i frangenti contro calda sabbia.

«Oops…» bisbigliò Aenea, dopo solo un momento di simile perfezione.

Interruppi per un attimo il bacio, quanto bastava a stabilire che cosa ci aveva separati. «Legge di Newton» bisbigliai contro la sua guancia.

«A ogni azione…» bisbigliò Aenea, ridacchiando piano, tenendomi la spalla come una nuotatrice che si riposi un poco.

«… una reazione uguale e contraria» terminai, sorridendo, finché lei non mi baciò di nuovo.

«Soluzione» bisbigliò Aenea. Con le gambe mi circondò i fianchi. I suoi seni galleggiarono fra noi, i capezzoli mi titillarono il petto.

Poi si distese, di nuovo la nuotatrice, ora tenendosi solo a galla, braccia larghe ma dita ancora intrecciate alle mie. Continuammo a ruotare lentamente intorno al nostro comune centro di gravità, un lento ruzzolio, la mia testa che si girava e scendeva e girava come un cavaliere su un delfino che facesse lente capriole sotto l’acqua illuminata dal sole; ma non ero interessato all’elegante balistica del nostro atto d’amore, non ne ero nemmeno consapevole, ero semplicemente immerso nell’amore. Ci muovemmo più velocemente nel caldo mare d’aria.

Alcuni minuti più tardi Aenea mi lasciò le mani, si mosse in alto e in avanti, mentre continuavamo a ruzzolare insieme, mi piantò le unghie nella schiena senza smettere di baciarmi con folle urgenza; poi staccò la bocca per ansimare e mandare un grido, una volta, sottovoce. Nello stesso istante del suo grido, sentii il suo caldo universo chiudersi intorno a me, con quel breve, stretto fremito, quell’intimo impulso condiviso. Dopo un attimo fui io ad ansimare, ad aggrapparmi a lei mentre fremevo in lei, a bisbigliarle contro il collo salato e l’aureola di capelli: «Aenea… Aenea». Una preghiera. La mia unica preghiera allora. La mia unica preghiera adesso.

Galleggiammo insieme a lungo, anche dopo essere tornati di nuovo due persone anziché una sola. A gambe ancora intrecciate, ci accarezzavamo e tenevamo stretti. Le baciai la gola e sentii la sua pulsazione come il ricordo di un’eco sulle mie labbra. Le passai le dita fra i capelli sudati.

In quel momento, capii, nessun evento del passato contava. Nessun terribile evento nel futuro contava. Ciò che contava era la sua pelle contro la mia, la sua mano che mi teneva, il profumo dei suoi capelli e della pelle, il tepore del suo alito sul mio petto. Quello era satori. Quella era verità.

Con una spinta del piede Aenea si accostò all’armadietto, il tempo necessario per prendere un piccolo asciugamano caldo e bagnato. A turno ci togliemmo un po’ del sudore. La camicia mi passò vicino: pareva che le maniche vuote tentassero di nuotare nella lieve corrente d’aria. Aenea rise e si attardò nel ripulire e asciugare, semplice atto che divenne rapidamente tutt’altra cosa.

«Oops!» Mi sorrise. «Com’è accaduto?»

«Legge di Newton?» dissi.

«Ipotesi sensata» bisbigliò lei. «Quale sarebbe allora la reazione, se facessi… così?»

Il risultato istantaneo del suo esperimento lasciò sorpresi, penso, tutt’e due.

«Mancano delle ore alla riunione con gli altri sulla nave-albero» mormorò Aenea. Disse qualcosa alla capsula e la parete ricurva divenne trasparente. Fu come galleggiare fra gli innumerevoli rami dalle foglie grandi come vele, un momento bagnati dal calore del sole e poi, appena guardavamo l’altro lato della capsula trasparente, sommersi nella notte e nelle stelle.

«Non preoccuparti» disse Aenea. «Noi vediamo fuori, ma dall’esterno la parete è opaca. Riflettente.»

«Come fai a esserne sicura?» Le baciai di nuovo il collo, cercai la morbida pulsazione.

Aenea sospirò. «Non possiamo esserne sicuri, immagino, senza uscire e guardare dentro. Un problema alla David Hume.»

Cercai di ricordare le letture di filosofia a Taliesin West, ricordai le nostre discussioni su Berkeley, Hume e Kant, ridacchiai. «C’è un altro modo per controllare» dissi, strofinandole con i piedi i polpacci e la parte posteriore delle gambe.

«Quale?» mormorò Aenea, a occhi chiusi.

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