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Era la sua personale capsula di soggiorno, la nostra capsula personale mi disse, e assomigliava molto a quella dove mi ero svegliato, a parte la presenza di scaffali di materia organica, nicchie, scrittoio, armadi ripostiglio e apparecchiature per interfaccia comlog. Alcuni miei vestiti, presi dalla nave del console, erano piegati in bell’ordine in un armadio e i miei stivali di ricambio erano conservati in un cassettone di fibroplastica.

Aenea prese del cibo da un armadio frigo e si mise a preparare panini. «Sarai affamato, amore mio» disse, spezzando un pane scuro. Vidi formaggio di zigocapra sul bancone di lappolite per gravità zero, alcune fette di roastbeef che provenivano di sicuro dalla nave del console, vasetti di mostarda e diversi boccali con coperchio contenenti birra di riso di T’ien Shan. All’improvviso mi accorsi di essere affamato come un lupo.

I panini erano grossi e ben ripieni. Aenea li mise su piatti stagni, fatti di una robusta fibra vegetale, prese il suo e un bulbo di birra, con un calcio si spinse verso la parete esterna. Comparve una porta a diaframma che cominciò ad aprirsi.

«Ah…» protestai, allarmato. Volevo dire: "Scusa, Aenea, ma là fuori c’è il vuoto dello spazio. Non esploderemo per la decompressione e faremo una morte orribile?".

Aenea si diede la spinta e varcò la porta organica. Scrollai le spalle e la seguii.

Là fuori c’erano passerelle, ponti sospesi, scale di lappolite, balconate, terrazze, tutti di fibra vegetale dura come acciaio e serpeggianti intorno alle capsule, agli steli, ai rami e ai tronchi, come tanta edera. C’era anche aria respirabile. Odorava di foresta dopo la pioggia.

«Campo di contenimento» dissi. Be’, dovevo aspettarmelo. In fin dei conti, se l’antichissima nave del console aveva una loggia esterna…

Mi guardai intorno. «Cosa lo alimenta? Pannelli solari?»

«Indirettamente» rispose Aenea. Trovò per noi una panca e una stuoia di lappolite. Non c’erano ringhiere, in quel balconcino dal fitto intreccio. Il gigantesco ramo, largo almeno trenta metri, finiva in una profusione di foglie sopra di noi e la rete traforata dei tronchi e dei rami "sotto" di noi convinse il mio orecchio interno che eravamo di molti chilometri su una parete di verdi travature incrociate. Resistetti all’impulso di gettarmi disteso sulla stuoia di lappolite e di tenermi aggrappato come se ne andasse della vita. Vidi svolazzare un ragnatelide radiante, seguito da un uccellino più piccolo dalla coda forcuta.

«Indirettamente?» ripetei a bocca piena per un grosso boccone.

«Gli erg convertono in campo di contenimento la maggior parte della luce solare» spiegò Aenea. Sorseggiò la birra e guardò la distesa all’apparenza infinita di foglie sopra di noi, sotto di noi, tutt’intorno a noi, foglie rivolte tutte in direzione della vivida stella. Non c’era aria sufficiente a darci un cielo azzurro, ma il campo di contenimento polarizzava la zona superiore quanto bastava a impedire che si restasse accecati, se si guardava verso il sole.

Rischiai di sputare il boccone; invece bene o male lo inghiottii e dissi: «Erg? Come nei leganti d’energia di Aldebaran? Parli sul serio? Come l’erg portato nell’ultimo pellegrinaggio su Hyperion?»

«Sì» disse Aenea. I suoi occhi neri adesso erano puntati su di me.

«Pensavo che fossero estinti.»

«No.»

Bevvi un lungo sorso dal bulbo di birra e scossi la testa. «Sono confuso.»

«Ne hai il diritto, mio caro amico» disse piano Aenea.

«Questo posto…» con un debole gesto indicai la parete di rami e di foglie che si estendeva lontano come un orizzonte planetario, la curva infinitamente distante di verde e di nero lontano sopra di noi «è impossibile.»

«Non proprio. I templari e gli Ouster ci hanno lavorato, su questo e su altri simili a questo, per un migliaio di anni.

Ripresi a masticare. Il formaggio e il roastbeef erano ottimi. «Così questo è il luogo dove andarono le migliaia o milioni di alberi che abbandonarono Bosco Divino al tempo della Caduta.»

«Alcuni» disse Aenea. «Ma già molto prima della Caduta, i templari lavoravano con gli Ouster per sviluppare anelli di foresta orbitale e biosfere.»

Scrutai in alto. Le distanze mi davano le vertigini. La sensazione di essere su quella piccola piattaforma fronzuta tanti chilometri sopra il nulla mi faceva barcollare. Molto più in basso, sulla nostra destra, quello che pareva un minuscolo rametto verde si mosse lentamente fra il traforo di rami. Vidi il velo del campo di energia intorno al presunto rametto e capii di avere sotto gli occhi una delle leggendarie navi-albero dei templari, quasi certamente lunga chilometri.

«Allora è un ambiente completo?» dissi. «Una vera sfera di Dyson? Un globo intorno a una stella?»

Aenea scosse la testa. «Per il completamento manca ancora molto, anche se una ventina di anni standard fa hanno collegato tutti i viticci primari del tronco. Tecnicamente è una sfera, ma a questo punto composta in gran parte di buchi, alcuni larghi molti milioni di chilometri.»

«Fottutamente fantastico» dissi, incapace di trovare un’espressione più eloquente. Mi strofinai le guance, sentii la barba lunga. «Ne sono uscito da due settimane?»

«Quindici giorni standard.»

«Di solito il medibox lavora più in fretta.» Terminai il panino, incollai il piatto stagno al piano del tavolino e mi dedicai alla birra.

«Di solito, sì. Di sicuro Rachel ti ha detto che hai trascorso un periodo relativamente breve nel robochirurgo. Ha fatto lei stessa quasi tutti i primi interventi.»

«Perché?»

«Gli scomparti erano occupati. Appena giunti qui, ti abbiamo tolto dalla crio-fuga, ma i tre nel medibox erano in pessime condizioni. De Soya è stato in punto di morte per una settimana intera. Il sergente Gregorius era ferito molto più gravemente di quanto non ci abbia fatto credere quando l’abbiamo incontrato sul Grande Picco. Il terzo, Carel Shan, è morto nonostante l’impegno del medibox e dei medici Ouster.»

«Merda» dissi, abbassando il bulbo di birra. «Mi spiace, è una brutta notizia.» Si finiva per abituarsi a pensare che i robochirurghi aggiustassero praticamente tutto.

Aenea mi guardò con una tale intensità che sentii il suo sguardo scaldarmi la pelle, come me la scaldavano in quel momento i forti raggi del sole. «Come ti senti, Raul?»

«Magnificamente. Qualche dolorino. Riesco a sentire le costole che si saldano. Le cicatrici mi prudono. E ho l’impressione di avere dormito due settimane di fila, ma per il resto sto magnificamente.»

Aenea mi prese la mano: mi accorsi che aveva gli occhi umidi. «Mi sarei incazzata davvero, se tu fossi morto per colpa mia» disse dopo un momento, con voce roca.

«Anch’io.» Le strinsi la mano, alzai gli occhi e all’improvviso balzai in piedi, mandando il bulbo di birra a cadere a spirale nel vuoto e rischiando di seguirlo. Solo le suole di lappolite delle ciabatte mi tennero ancorato. «Santa merda!» esclamai, segnando a dito.

Da quella distanza pareva un calamaro, forse lungo solo un paio di metri. Ma per esperienza personale e perché cominciavo ad abituarmi alla prospettiva in quell’ambiente, sapevo che la realtà era diversa.

«Ah, uno zeplin» disse Aenea. «Gli Akerataeli ne hanno decine di migliaia al lavoro nella biosfera. Stanno nel loro involucro di anidride carbonica e di ossigeno.»

«Non mi mangerà di nuovo, vero?»

Aenea ridacchiò. «Non credo. Quello che ti ha assaggiato di sicuro ha passato parola.»

Cercai la mia birra, vidi il bulbo rotolare un centinaio di metri più in basso, pensai di saltare a prenderlo, ci ripensai e mi sedetti sulla panchina di lappolite.

Aenea mi diede il suo bulbo. «Bevi pure. Non riesco mai a finirli, ’sti cosi.» Mi guardò bere. «Altre domande, giacché ci siamo?»

Mandai giù la sorsata e scrollai le spalle. «Be’, pare che ci sia in giro un mucchio di persone estinte, mitiche e defunte. Ti va di spiegare?»

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