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A. Bettik e io ci fermammo in fondo al padiglione; tra i mormoni, apprendisti e collaboratori presero posto; alcuni degli addetti alle costruzioni restarono in piedi sui gradini del passaggio centrale o in fondo alla sala, con l’androide e me, come se ci tenessero a non sporcare di fango e di polvere il tappeto e i sedili imbottiti. Quando Aenea entrò dal tendaggio laterale e saltò sul palcoscenico, il mormorio cessò.

L’acustica era buona, ma Aenea era sempre stata capace di proiettare la propria voce senza dare l’impressione di alzarla. Ora disse piano: «Grazie per essere venuti. Pensavo che avremmo dovuto parlare».

Nella quinta fila di poltroncine si alzò subito Jaev Peters, uno degli apprendisti più anziani. «Eri andata via, Aenea. Di nuovo nel deserto.»

La ragazza sul palcoscenico annuì.

«Hai parlato ai Leoni e Tigri e Orsi?»

Nessuno ridacchiò. La domanda era stata posta con la massima serietà e la risposta era attesa da novanta persone altrettanto serie. Perciò è meglio che spieghi.

Tutto risale ai Canti che il poeta Martin Sileno scrisse più di due secoli fa. In quella storia dei pellegrini su Hyperion, dello Shrike e della battaglia fra la specie umana e il TecnoNucleo, era spiegato come le prime reti ciberspaziali si erano evolute in sfere dati planetarie. Al tempo dell’Egemonia, le Intelligenze Artificiali del TecnoNucleo avevano usato le loro tecnologie segrete, teleporter e astrotel, per tessere centinaia di sfere dati in un unico e segreto ambiente informatico interstellare detto megasfera. Ma, secondo i Canti, il padre di Aenea, il cìbrido John Keats, era andato come persona incorporea nel Nucleo della megasfera e aveva scoperto l’esistenza di un più vasto ambiente dati, forse più vasto della nostra galassia, che perfino le IA del Nucleo non osavano esplorare, perché pullulava — secondo le parole dell’IA Ummon — di "Leoni e Tigri e Orsi". Questi erano gli esseri — o le intelligenze, o le divinità, per quanto ne sapevamo — che un millennio fa avevano trafugato la Terra e l’avevano spostata nella Nube di Magellano, prima che il Nucleo la distruggesse. Quei Leoni e Tigri e Orsi erano gli spauracchi protettori del nostro mondo. Nessuno, nella Compagnia, aveva mai visto quegli esseri o parlato con loro, né aveva valide prove della loro esistenza. Nessuno, tranne Aenea.

«No» disse la ragazza sul palcoscenico. «Non ho parlato con loro.» Abbassò lo sguardo, come imbarazzata. Era sempre evasiva, se affrontava quell’argomento. «Ma credo di averli uditi.»

«Ti hanno parlato?» domandò Jaev Peters.

«No» rispose Aenea. «Non ho detto questo. Li ho solo… uditi. Un po’ come quando si ode la conversazione di altri attraverso la parete del dormitorio.»

Il paragone suscitò un brusio di divertimento. Per quanto fossero spessi i muri di pietra degli altri locali della Compagnia, le pareti del dormitorio erano notoriamente sottili.

«D’accordo» disse Bets Kimbal, dalla prima fila. Bets, una donna generosa e piena di buon senso, era la capocuoca. «Raccontaci cosa hanno detto.»

Aenea si avvicinò al bordo del palcoscenico e guardò i presenti, più anziani di lei e suoi colleghi. «Posso dirvi questo» rivelò a bassa voce. «Non ci saranno più cibi e provviste al mercato indiano. Sparito.»

Fu come se avesse lasciato cadere una bomba nel padiglione della musica. Quando il chiacchiericcio si attenuò, uno dei più robusti operai, un certo Hussan, alzò la voce. «Cosa significa, sparito? Dove prenderemo il cibo?»

Il panico era giustificato. Ai tempi del signor Wright, nel XX secolo, il campo desertico della Compagnia si trovava a una cinquantina di chilometri da una grande città, Phoenix. A differenza del Taliesin del Wisconsin negli anni della Depressione, dove gli apprendisti coltivavano il ricco terreno mentre lavoravano ai progetti del signor Wright, quel campo desertico non era mai riuscito a produrre il proprio cibo. Perciò si andava a Phoenix e si barattavano o si compravano con le primitive monete e banconote le indispensabili provviste. Per sopravvivere di mese in mese, il Vecchio Architetto aveva sempre dovuto contare sulla generosità dei clienti… grossi prestiti che non avrebbe mai restituito.

Nel nostro ricostruito campo desertico non c’erano città. L’unica strada — due solchi ghiaiosi — portava a ovest, in centinaia di miglia di vuoto. Lo sapevo perché avevo sorvolato la zona a bordo della navetta e l’avevo anche percorsa nell’automobile del Vecchio Architetto. Ma a circa trenta chilometri dal comprensorio, una volta alla settimana c’era un mercato indiano dove barattavamo oggetti d’artigianato in cambio di cibo e di materiali indispensabili. Era lì da anni, già prima del nostro arrivo; evidentemente tutti si aspettavano che restasse lì per sempre.

«Cosa significa, sparito?» ripeté Hussan, con un rauco grido. «Dove sono andati gli indiani? Erano semplici illusioni cìbride come il signor Wright?»

Aenea mosse le mani in un gesto a cui mi ero abituato nel corso degli anni: un aggraziato modo per accantonare la faccenda, che sono giunto a considerare l’analogo fisico dell’espressione zen mu, che nel giusto contesto può significare "dis-fai la domanda".

«Il mercato è sparito perché non ne abbiamo più bisogno» disse Aenea. «Gli indiani sono veri — Navajo, Apache, Hopi e Zuni — ma devono vivere la loro vita, condurre i loro esperimenti. Il commercio con noi era… un favore.»

A queste parole i presenti si arrabbiarono, ma ben presto tornò la calma. Bets Kimbal si alzò. «Cosa facciamo, bambina?»

Aenea si sedette sul bordo del palcoscenico, come se cercasse di diventare tutt’uno con l’ansioso pubblico in attesa. «La Compagnia è finita» disse. «Questa parte della nostra vita deve terminare.»

Dal fondo, uno degli apprendisti più giovani gridò: «No che non è finita! Il signor Wright può tornare! Era un cìbrido, non dimenticarlo, era costruito! Il Nucleo, o i Leoni e Tigri e Orsi, chiunque l’abbia creato, può rimandarlo da noi».

Aenea scosse la testa, con aria triste ma ferma. «No. Il signor Wright è svanito. La Compagnia è finita. Senza il cibo e i materiali che gli indiani portavano da tanto lontano, questo campo nel deserto non può durare neanche un mese. Dobbiamo andarcene.»

Nel silenzio risuonò, piano, la voce della giovane apprendista Peret. «Dove, Aenea?»

Forse proprio in quel momento mi resi conto per la prima volta che l’intero gruppo si era affidato alla giovane donna che avevo conosciuto da bambina. Quando c’era ancora il Vecchio Architetto, che teneva lezioni e faceva sproloqui durante i seminari e le chiacchierate fra uomini nella sala da disegno, che guidava il suo gregge in scampagnate ed escursioni balneari fra le montagne, che pretendeva sollecitudine e i cibi migliori, la reale supremazia di Aenea era stata in qualche modo mascherata. Ma adesso era evidente.

«Sì» disse un altro, al centro della fila di sedili. «Dove, Aenea?»

La mia amica allargò le mani in un altro gesto che avevo imparato a conoscere. Anziché: "Dis-fai la domanda", quel gesto significava: "Devi rispondere tu stesso alla tua domanda".

«Ci sono due possibilità» disse Aenea. «Ciascuno di voi è giunto qui o per teleporter o attraverso le Tombe del Tempo. Potete tornare indietro per teleporter…»

«No!»

«Com’è possibile?»

«Mai. Piuttosto la morte!»

«No! La Pax ci troverà e ci ucciderà!»

Le proteste furono immediate e convinte. Erano terrore fatto parole. Fiutai la paura nella sala, come un tempo la fiutavo negli animali presi al laccio, nelle brughiere di Hyperion.

Aenea alzò la mano e le proteste svanirono. «Potete tornare nello spazio della Pax mediante teleporter oppure potete restare sulla Terra e cercare di resistere da soli.»

Ci furono altri mormoni e notai il sollievo per la possibilità di non fare ritorno. Capivo quella sensazione: la Pax era diventata anche per me uno spauracchio. Il pensiero di tornare nello spazio della Pax mi faceva svegliare, senza fiato, almeno una notte a settimana.

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