Ma anche se la nave avesse reagito immediatamente e non fosse stata intercettata da una nave da guerra della Pax, avrebbe impiegato diversi minuti prima di scendere attraverso il lucernario del palazzo. Intanto noi saremmo già morti.
Conoscevo la velocità di quella creatura: quando affrontava lo Shrike, era semplicemente scomparsa. Un lampo confuso, cromato. Non sarei mai riuscito a estrarre di tasca la torcia laser o la trasmittente. Saremmo morti prima che la mia mano fosse a mezza via dall’arma.
Rimasi immobile: di sicuro Aenea aveva riconosciuto subito quella donna, ma non aveva reagito con la sorpresa che provavo io. Anzi, non aveva mostrato nessuna reazione. Non aveva perduto il sorriso. Con lo sguardo aveva passato in rassegna gli ospiti della Pax, compreso quel mostro, ed era tornata a guardare il bambino sul trono.
Il primo a parlare fu il reggente Reting Tokra. «I nostri ospiti hanno chiesto questa udienza» disse. «Hanno sentito parlare da Sua Santità della ricostruzione in corso al Tempio a mezz’aria e hanno espresso il desiderio di conoscere la giovane donna che aveva progettato l’opera.»
La voce del reggente era tirata e sobria come il suo aspetto.
Allora parlò il Dalai Lama: la sua voce da bambino era sommessa, ma tanto generosa quanto quella del reggente era stata misurata. «Amici miei» disse con un gesto verso Aenea e me «posso presentarvi i nostri distinti visitatori provenienti dalla Pax? Il cardinale John Domenico Mustafa del Sant’Uffizio della Chiesa cattolica, l’arcivescovo Jean Daniel Breque del Corpo diplomatico pontificio, padre Martin Farrell, padre Gerard LeBlanc e il comandante Rhadamanth Nemes della Guardia nobile.»
Salutammo con un cenno. I dignitari della Pax, mostro compreso, risposero con un cenno. Se c’era stata una infrazione di protocollo nel fatto che Sua Santità il Dalai Lama avesse fatto le presentazioni, nessuno parve accorgersene.
Il cardinale John Domenico Mustafa disse con voce frusciante come seta: «Grazie, Santità. Ma ha presentato queste eccezionali persone solo come architetto e assistente». Ci sorrise, mettendo in mostra denti piccoli e aguzzi. «Avete un nome, immagino.»
Il polso mi batteva a mille. Le dita della destra mi si contraevano al pensiero della torcia laser. Aenea sorrideva ancora, ma non dava segno di rispondere al cardinale. La mente mi galoppava per inventare nomi falsi. Ma a quale scopo? Di sicuro sapevano chi eravamo. Era tutta una trappola. Quella Nemes non ci avrebbe mai permesso di lasciare la sala del trono, oppure sarebbe stata ad aspettarci quando fossimo andati via. Con mia grande sorpresa fu il Dalai Lama a parlare: «Sarò lieto di completare le presentazioni, eminenza. Il nostro stimato architetto si chiama Ananda e il suo assistente, uno di molti abili assistenti, mi dicono, si chiama Subhadda».
Battei le palpebre per la sorpresa, lo ammetto. Qualcuno aveva detto al Dalai Lama quei nomi? In seguito Aenea mi disse che Ananda era stata la prima discepola di Buddha e maestra in proprio; Subhadda era stato un asceta errante, l’ultimo discepolo diretto di Buddha, diventato suo seguace dopo averlo incontrato solo qualche ora prima che morisse. Mi disse pure che il Dalai Lama aveva escogitato quei nomi per presentarci, apprezzandone evidentemente l’ironia, che però a me sfuggiva.
«Signora Ananda» disse il cardinale Mustafa, con un lieve inchino. «Signor Subhadda.» Ci squadrò. «Perdoni la mia franchezza e la mia ignoranza, signora Ananda, ma lei pare di ceppo razziale diverso della maggior parte delle persone da noi incontrate nel Potala o nella zone limitrofe di T’ien Shan.»
Aenea annuì. «Bisogna stare attenti a generalizzare, eminenza. In varie zone di questo pianeta ci sono insediamenti di coloni provenienti da molte regioni della Vecchia Terra.»
«Certamente» ronfò il cardinale Mustafa. «E devo ammettere che il suo inglese della Rete è davvero privo di inflessioni. Posso chiederle quale regione del T’ien Shan lei e il suo assistente considerate terra patria?»
«Certamente» rispose Aenea, con lo stesso tono mellifluo del cardinale. «Venni al mondo in una regione di creste al di là dei monti Moriah e Sion, a nord e a ovest di Muztagh Alta.»
Il cardinale annuì giudiziosamente. Notai allora che portava un piccolo bavero (in seguito Aenea mi disse che si chiamava rabat o rabbi, nella terminologia ecclesiastica) di seta color scarlatto annacquato, lo stesso della tonaca e dello zuccotto.
«Lei è per caso» continuò dolcemente «di fede ebrea o maomettana, fedi che secondo i nostri ospiti prevalgono in quelle regioni?»
«Non sono di nessuna fede» disse Aenea. «Se si definisce fede l’atto di credere nel soprannaturale.»
Il cardinale inarcò lievemente le sopracciglia. L’uomo presentato come padre Farrell lanciò un’occhiata al proprio superiore. Il terribile sguardo di Rhadamanth Nemes non ondeggiò minimamente.
«Eppure lavora per costruire un tempio alla fede buddhista» disse il cardinale Mustafa, in tono abbastanza piacevole.
«Sono stata assunta per ristrutturare un edificio bellissimo» replicò Aenea. «Sono orgogliosa d’essere stata scelta per questo compito.»
«Malgrado la sua mancanza di… fede nel sovrannaturale?» disse il cardinale. Sentivo l’Inquisizione nella sua voce. Anche nelle brughiere di Hyperion avevamo sentito parlare del Sant’Uffizio.
«Forse proprio per questo, eminenza» replicò Aenea. «E per la fiducia nelle mie capacità umane e in quelle dei miei collaboratori.»
«Perciò il compito giustifica se stesso?» insistette il cardinale. «Anche se non ha significato più profondo?»
«Forse un compito ben eseguito è davvero il significato più profondo» replicò Aenea.
Il cardinale Mustafa ridacchiò, una risatina non del tutto piacevole. «Ben detto, giovane signora. Ben detto.»
Padre Farrell si schiarì la voce. «La regione al di là del monte Sion» disse in tono pensieroso. «Durante il sopralluogo dall’orbita abbiamo notato che c’era un’arcata di teleporter nella linea di cresta di quella zona. Pensavamo che T’ien Shan non avesse mai fatto parte della Rete, ma i nostri archivi hanno mostrato che l’arcata in questione fu completata poco prima della Caduta.»
«E mai usata!» esclamò il giovane Dalai Lama, alzando il dito. «Nessuno è mai giunto alle Montagne del cielo o ne è partito mediante il teleporter dell’Egemonia.»
«Infatti» disse con calma il cardinale Mustafa. «Be’, era una supposizione, ma devo porgerle le nostre scuse, Santità. Nello zelo di sondare dalla nave la struttura dell’antico teleporter, abbiamo accidentalmente fuso la roccia circostante e riempito l’arcata. Il portale è sigillato per sempre nella pietra, purtroppo.»
A queste parole lanciai un’occhiata a Rhadamanth Nemes. La mostruosa creatura non batté ciglio. Non aveva mai battuto le palpebre: il suo sguardo era inchiodato su Aenea.
Il Dalai Lama mosse la mano come per accantonare la faccenda. «Non importa, eminenza. Non ci serve un teleporter che non è stato mai usato, oppure la sua Pax ha trovato il modo di riattivarli?» Rise all’idea: una piacevole risata da bambino, ma pungente per intelligenza.
«No, Santità» rispose con un sorriso il cardinale Mustafa. «Neppure la Chiesa ha trovato un modo per riattivare la Rete. E quasi certamente è meglio che non lo trovi mai.»
La tensione in me si mutava rapidamente in una sorta di nausea. In pratica quell’uomo piccolo e brutto in rosso cardinalizio aveva detto a Aenea di sapere come era giunta su T’ien Shan e l’aveva avvisata che non sarebbe potuta scappare per la stessa via. Lanciai uno sguardo alla mia amica, ma Aenea pareva tranquilla e solo moderatamente interessata alla conversazione. Che ci fosse un secondo teleporter di cui la Pax ignorava l’esistenza? Comunque, le parole del cardinale spiegavano almeno come mai eravamo ancora vivi: la Pax aveva sigillato la tana del topolino Aenea e aveva un gatto — o diversi gatti: la nave diplomatica in orbita intorno a T’ien Shan e senza dubbio altre navi da guerra nascoste nel sistema solare — che l’aspettava al varco. Se avessi tardato di qualche mese, avrebbero catturato o distrutto la nostra nave e avrebbero ancora avuto Aenea là dove volevano che fosse.