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Normalmente è una camminata di sei ore alla luce del sole, ma questo pomeriggio è una terribile e pericolosa scarpinata nella nebbia e sotto la pioggia gelida. Gli aiutanti che accompagnano il sindaco camerlengo Charles Chi-kyap Kempo e l’abate Kempo Ngha Wang Tashi cercano di riparare i due notabili mediante ombrelli di un rosso e di un giallo brillante, ma spesso la cornice ghiacciata è stretta e i due notabili si bagnano di frequente, procedendo in fila per uno. I ponti sospesi sono incubi da attraversare — il "pavimento" di ogni ponte è una singola fune di canapa pesantemente intrecciata ad altre funi di canapa verticali, oltre a funi orizzontali come ringhiere e un secondo cavo molto spesso sopra la testa di chi passa — e per quanto sia di solito un gioco da ragazzi bilanciarsi sul cavo inferiore tenendosi a contatto con le funi laterali, sotto la pioggia battente bisogna concentrarsi al massimo. Ma tutta la gente del posto ha fatto simili traversate durante decine di monsoni e procede rapidamente; solo Aenea e io esitiamo, mentre i ponti si flettono e ondeggiano sotto il peso del gruppo e le funi ghiacciate minacciano di scivolarci di mano.

Malgrado la tempesta, o forse proprio per quello, qualcuno ha acceso le torce della via Alta lungo tutta la parete est della cresta Phari e i bracieri che ardono nella fitta nebbia ci aiutano a trovare la strada, mentre le passerelle di legno svoltano, piegano, salgono, scendono scale ghiacciate e portano ad altri ponti. Arriviamo al mercato Phari proprio al crepuscolo, anche se si direbbe che sia molto più tardi, tanto è buio. Altri gruppi diretti al Palazzo d’inverno si uniscono a noi e ci sono almeno settanta persone che vanno insieme a ovest, oltre la forra. Il palanchino della Dorje Phamo ballonzola ancora con noi e sospetto che altri, oltre me, siano invidiosi della sistemazione all’asciutto della sua occupante.

Confesso d’essere deluso: contavamo di giungere a Potala al tramonto, mentre il bagliore rossastro riflesse illuminava ancora le creste nord-sud e i più alti picchi a nord e a ovest del palazzo. Prima d’ora non ho mai visto il palazzo neppure di sfuggita e mi auguravo di poter vedere questa regione. Sta di fatto che l’ampia via Alta tra Phari e Potala è solo una serie di cornici e di passerelle illuminate da torce. Nel sacco ho portato la torcia laser, ma non saprei dire se si sia trattato di un futile gesto di difesa nel caso che nel palazzo si metta male oppure di un mezzo per trovare la strada nel buio. Il ghiaccio riveste le rocce, le piattaforme, le funi di canapa delle ringhiere lungo le passerelle più frequentate e le scale. Non riesco a immaginare di trovarmi sulla funivia in una notte come questa, ma corre voce che parecchi ospiti ardimentosi stiano seguendo quel percorso.

Arriviamo alla Città Proibita circa due ore prima dell’inizio previsto del ricevimento. Le nuvole si sono alzate un poco, la pioggia scema e compare il Palazzo d’inverno: lo spettacolo mi mozza il fiato e mi fa dimenticare la delusione di non essere giunto al tramonto.

Il Palazzo d’inverno è costruito su un grande picco che si alza dalla cresta Cappello Giallo e ha alle spalle i picchi più alti del Koko Nor; la prima cosa che vediamo attraverso le nuvole è il Drepung, il monastero che circonda il palazzo e ospita trentacinquemila monaci: strati su strati di edifici di pietra che risalgono i pendii verticali, migliaia di finestre illuminate da lanterne, torce alle balconate, alle terrazze, agli ingressi, mentre dietro il Drepung e su di esso, con tetti dorati che toccano il soffitto di nuvole ribollenti, sorge il Potala, il Palazzo d’inverno del Dalai Lama, risplendente di luci e messo in risalto, anche nell’oscurità causata dalla tempesta, dai picchi del Koko Nor illuminati dai lampi.

Qui gli aiutanti e i compagni di viaggio tornano indietro e solo noi invitati procediamo alla volta della Città Proibita.

La via Alta ora si appiattisce e si allarga fino a diventare una vera strada maestra, un viale largo cinquanta metri, lastricato di pietre dorate, fiancheggiato di torce e circondato da innumerevoli templi, sacrari lamaisti, gompa minori, edifici annessi all’imponente monastero e posti di guardia militari. La pioggia è cessata, ma il viale luccica di riflessi dorati, mentre centinaia e centinaia di pellegrini vivacemente vestiti e di abitanti della Città Proibita si agitano davanti alle enormi mura e ai cancelli del Drepung e del Potala. Monaci in tonache color zafferano si muovono in gruppetti silenziosi; funzionari di palazzo in vesti rosso vivo e viola sgargiante e copricapi gialli che sembrano piatti capovolti camminano con decisione davanti a soldati in uniforme azzurra e picche a strisce bianche e nere; messaggeri ufficiali si muovono a passo cadenzato, in aderenti abiti arancione e rosso o oro e azzurro; donne di corte si muovono con passo lieve sulle pietre dorate, in lunghe vesti di seta azzurro cielo, turchese cupo, sgargiante blu cobalto, con gli strascichi che frusciano piano sul lastrico bagnato; sacerdoti della setta Cappello Rosso sono subito riconoscibili per il copricapo a forma di piatto capovolto, di seta cremisi con frange cremisi, mentre i Drungpa, gli abitanti della valle boscosa, hanno copricapi di pelo di zigocapra, costumi adorni di brillanti piume bianche, rosse, marrone e oro, e nella fascia alla cintura la grande spada cerimoniale dorata; infine la gente comune della Città Proibita, meno vistosa degli alti funzionari: cuochi e giardinieri e servitori e precettori e scalpellini e valletti personali, tutti abbigliati in chuba di seta verde e blu o arancio e oro, mentre si scorgono di sfuggita quelli (parecchie migliaia) che lavorano nei quartieri del Dalai Lama nel Palazzo d’inverno, in cremisi e oro, tutti col copricapo di seta listato di pelliccia di zigocapra e munito di tesa rigida larga una cinquantina di centimetri per proteggere il viso (dal pallido colorito di chi vive sempre nel palazzo) nei giorni soleggiati e per tenere lontano la pioggia nella stagione dei monsoni.

In quell’ambiente, il nostro gruppo di pellegrini infradiciati pare smorto e misero; ma non penso molto al nostro aspetto, mentre varchiamo un cancello alto sessanta metri nelle mura esterne del monastero Drepung e iniziamo a percorrere il ponte Kyi Chu.

Questo ponte è largo venti metri, lungo centoquindici e costruito col più moderno plastacciaio al carbonio. Riluce come cromo nero. Sotto di esso c’è… il nulla. Il ponte scavalca la sella terminale della cresta, che scende per migliaia di metri fino alle nuvole di fosgene. Sul lato est, quello da cui arriviamo, gli edifici del Drepung si alzano per due o tre chilometri sulla nostra testa: pareti piatte, finestre illuminate, aria intersecata di decine e decine di ragnatele di cavi, scorciatoie ufficiali fra il monastero e il palazzo vero e proprio. Sul lato ovest, davanti a noi, il Potala si alza per più di sei chilometri sulle pareti dell’abisso: le migliaia di sfaccettature di pietra e le centinaia di tetti dorati riflettono il balenio dei lampi nelle basse nubi. In caso di attacco, il ponte Kyi Chu può rientrare in meno di trenta secondi nella parete ovest dello strapiombo, senza lasciare scala, appiglio, cornice o finestra nel mezzo chilometro di pietra verticale fino ai primi bastioni superiori.

Mentre lo attraversiamo, il ponte non rientra nella roccia. Ai lati sono disposti soldati in alta uniforme, armati di picca o di fucile a energia. In fondo al Kyi Chu ci fermiamo alla Pargo Kaling, la porta occidentale, un arco riccamente ornato alto ottantacinque metri. Da dentro la gigantesca arcata brillano luci che trapelano da migliaia di intricati disegni; il bagliore più vivido proviene dai due grandi occhi, ciascuno del diametro di più di dieci metri, che fissano il Kyi Chu e il Drepung a est.

Ciascuno di noi esita nel varcare la Pargo Kaling. Ancora un passo e ci troveremo nel comprensorio del Palazzo d’inverno, anche se il vero vano d’ingresso è trenta passi più avanti. In quel vano ci sono i mille gradini che ci porteranno al palazzo vero e proprio. Aenea mi ha raccontato che pellegrini da tutti gli angoli di T’ien Shan sono giunti camminando sulle ginocchia o in qualche caso prostrandosi a ogni passo (letteralmente misurando col proprio corpo le centinaia e centinaia di chilometri) solo per avere il permesso di varcare la porta occidentale e di toccare con la fronte l’ultima sezione del Kyi Chu per rendere omaggio al Dalai Lama.

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