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Lhomo Dondrub, l’esperto aviatore e scalatore, si è offerto volontario per scalare in free-climbing la parte finale della sporgenza e piazzarvi punti d’ancoraggio per gli ultimi metri di impalcatura; da un’ora Viki Groselj, Kim Byung-Soon, Haruyuki Otaki, Kenshiro Endo, Changchi Kenchung, Labsang Samten, alcuni altri muratori e montatori e io guardiamo Lhomo muoversi senza protezione da una parte all’altra della roccia sopra la sporgenza, come la proverbiale mosca della Vecchia Terra: possenti braccia e gambe che si flettono sotto la sottile stoffa del costume da scalata, che mantengono in ogni istante tre punti di contatto con la viscida roccia verticale, mentre la mano libera e il piede tastano in cerca della più piccola asperità su cui riposare, della più piccola fessura o crepa dove inserire un chiodo per il nostro aggancio. Stare a guardarlo è terrificante; ma è anche un privilegio, come se fosse possibile tornare indietro in una macchina del tempo e guardare Picasso che dipinge o George Wu che legge le sue poesie o Meina Gladstone che pronuncia un discorso. Decine di volte sono sicuro che Lhomo sta per staccarsi e precipitare, impiegherebbe minuti interi di caduta libera per finire nelle nuvole velenose sottostanti, ma ogni volta lui rimane magicamente al suo posto o trova un punto di attrito o per miracolo scopre una fessura in cui incuneare la mano o il dito per sostenere l’intero corpo.

Finalmente Lhomo termina il lavoro, le funi penzolano ben agganciate, i cavi sono assicurati e lui si cala al cavo fissato per primo, si sposta per cinque metri lateralmente, si lascia cadere nelle staffe e con una spinta si getta sulla nostra piattaforma di lavoro, come un leggendario supereroe che atterri. Labsang Samten gli porge un boccale di birra di riso gelata. Kenshiro e Viki gli danno pacche sulla schiena. Changchi Kenchung, il nostro mastro carpentiere dai baffi incerati, si lancia in un licenzioso canto di complimenti. Io scuoto la testa e sogghigno come un idiota. La giornata è esaltante: una cupola di cielo azzurro, la montagna sacra del Nord, l’Heng Shan, che risplende dall’altra parte del varco fra le nubi, vento moderato. Aenea dice che nel giro di qualche giorno scenderà su di noi la stagione delle piogge, il monsone meridionale porterà mesi di pioggia, di rocce scivolose e infine la neve, ma in un giorno così perfetto quell’evento pare improbabile e remoto.

Mi sento toccare il braccio e vedo Aenea. Per gran parte della mattina è stata sulle impalcature o sulla parete di roccia lavorata, appesa all’imbracatura, a sovrintendere il lavoro in pietra e mattoni sulla passerella e sui parapetti.

Sogghigno ancora per il flusso di adrenalina provato nel guardare Lhomo, come se fossi stato io al posto suo. «I cavi sono pronti per essere montati» dico. «Altri tre o quattro giorni di bel tempo e la passerella di legno sarà a posto. Poi passiamo alla tua piattaforma laggiù» indico l’ultimo bordo della sporgenza rocciosa «e voilà! Il tuo progetto è terminato, ragazzina, a parte verniciatura e lucidatura.»

Aenea annuisce, ma è chiaro che non pensa alle feste per Lhomo o all’imminente completamento del suo anno di lavoro. «Raul, puoi fare due passi con me un momento?»

La seguo giù per le scalette delle impalcature, su uno dei livelli permanenti e fuori, su una cornice di pietra. Mentre passiamo, piccoli uccelli verdi prendono il volo da una fenditura.

Visto da quell’angolo, il Tempio a mezz’aria è un’opera d’arte. Il legno lavorato e dipinto luccica più che brillare di rosso scuro. Le scalinate e le ringhiere e il lavoro d’intaglio sono eleganti e complicati. Molte pagode hanno le pareti shoji aperte e nella tiepida brezza svolazzano bandierine di preghiera e biancheria e coperte da letto. Ci sono otto bellissimi sacrari nel tempio, in ordine ascendente lungo le passerelle ascendenti, e ciascun sacrario a pagoda rappresenta un gradino nel nobile ottuplice sentiero come classificato dal Buddha: i sacrari si allineano su tre assi riferiti alle tre sezioni del sentiero: saggezza, moralità e meditazione. Sulle scalinate e piattaforme dell’asse ascendente saggezza ci sono i sacrari di meditazione per "giusta comprensione" e "giusto pensiero".

Sull’asse moralità ci sono "giusta parola", "giusta azione", "giusta vita" e "giusta opera". Questi ultimi sacrari di meditazione posso essere raggiunti solo con una faticosa salita su per una scaletta a pioli anziché una scalinata, perché — come Aenea e Kempo Ngha Wang Tashi mi hanno spiegato una sera nei primi tempi della mia permanenza — il Buddha ha inteso che questo sia un sentiero di strenuo e assiduo impegno.

Le pagode della più alta meditazione sono dedicate alla contemplazione degli ultimi due gradini del nobile ottuplice sentiero: "giusta preoccupazione" e "giusta meditazione". Quest’ultima pagoda, ho notato subito, guarda solo sulla parete di roccia dello strapiombo.

Ho anche notato che nel tempio non ci sono statue di Buddha. Quel poco che nonna mi ha spiegato del buddhismo, quando da bambino avevo fatto domande perché mi ero imbattuto in una citazione in un vecchio libro preso dalla biblioteca di Moors End, era questo: i buddhisti onorano e pregano statue nelle sembianze di Buddha. Dov’erano quelle statue? L’avevo domandato a Aenea.

Lei mi aveva spiegato che sulla Vecchia Terra il pensiero buddhista si era suddiviso in due categorie principali: Hinayana, una più antica scuola di pensiero, cui la seconda scuola, la più popolare Mahayana, aveva applicato il termine peggiorativo di "veicolo minore" (di salvezza) autoproclamandosi "veicolo maggiore". Un tempo c’erano state diciotto scuole d’insegnamento Hinayana e tutte si rifacevano a Buddha come maestro e spingevano alla contemplazione e allo studio dei suoi insegnamenti, non alla sua adorazione; ma al tempo del Grande Errore solo una di quelle scuole sopravviveva, la Theravada, e solo in remote regioni, tormentate dalle malattie e dalle carestie, dello Sri Lanka e della Thailandia, due province politiche della Vecchia Terra. Tutte le altre scuole buddhiste portate via nell’Egira rientravano nella categoria Mahayana, che si concentrava sulla venerazione delle statue di Buddha, sulla meditazione per la salvezza, su tonache color zafferano e su altri ornamenti cerimoniali che nonna mi aveva descritto.

Ma su T’ien Shan, mi aveva spiegato Aenea, il pianeta più influenzato da quella religione nella Periferia o nella vecchia Egemonia, il buddhismo si era evoluto a ritroso verso il razionalismo, la contemplazione, lo studio e l’attenta e spregiudicata analisi degli insegnamenti di Buddha. Per questo nel Hsuan-k’ung Ssu non c’erano statue di Buddha.

Ci fermiamo al termine della cornice di pietra. Gli uccelli volano in cerchio sotto di noi, aspettano che ce ne andiamo per tornare ai nidi nelle fenditure.

«Cosa c’è, ragazzina?»

«Il ricevimento al Palazzo d’inverno a Potala si tiene domani sera» dice Aenea. Ha il viso rosso e sporco di polvere per il lavoro della mattinata. Noto che ha un graffio sulla fronte e alcune goccioline di sangue. «Charles Chi-kyap Kempo sta formando un gruppo ufficiale di non più di dieci persone per parteciparvi» continua Aenea. «Ci sarà naturalmente Kempo Ngha Wang Tashi e il sovrintendente Tsipon Shakabpa, il cugino del Dalai Lama, Gyalo, suo fratello Labsang, Lhomo Dondrub perché il Dalai Lama ha sentito parlare delle sue imprese e vorrebbe conoscerlo, Tromo Trochi di Dhomu come agente commerciale e uno dei capisquadra in rappresentanza degli operai, o George o Jigme…»

«Non riesco a immaginare l’uno senza l’altro.»

«Neppure io. Ma penso che dovrà essere George. Lui sa parlare. Forse Jigme verrà con noi e aspetterà fuori del palazzo.»

«Così fanno otto.»

Aenea mi prende la mano. Le sue dita sono ruvide per il lavoro e le escoriazioni, ma mi sembrano sempre le più morbide e più eleganti dita umane dell’universo conosciuto. «Con me fanno nove» dice Aenea. «Ci sarà una folla enorme: gruppi giunti da tutte le città e le province. Non ci troveremo mai a meno di venti metri dai funzionari della Pax.»

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