Ma non c'era bisogno di metterla in quei termini. Dio era il grande compensatore: se subivi il male in vita, saresti stato ricompensato dopo la morte: questo il principio fondamentale che aveva consentito a generazioni di genitori di mandare a morte i propri figli in innumerevoli guerre. Stando così le cose, non aveva importanza se rovinavi la vita di qualcun altro, dato che questi poi andava in paradiso. Certo, potevi anche finire all'inferno, ma in prospettiva il male che avevi fatto agli altri non poteva nuocere più di tanto. Questa vita è un semplice prologo: è la vita eterna che conta.
Quindi, nell'eternità, Dio avrebbe ricompensato qualsiasi cosa fosse stata fatta a… a lei.
E quel bastardo che le aveva fatto quella cosa sarebbe bruciato all'inferno.
No, non aveva importanza il fatto che non avesse denunciato il reato: il bastardo non avrebbe potuto evitare il Giudice supremo.
Ma… ma… «E nel tuo mondo? Cosa accade ai criminali, da voi?»
Bip.
«Coloro che infrangono la legge» spiegò Mary. «Quelli che fanno intenzionalmente del male agli altri.»
«Ah» disse Ponter. «Oggigiorno abbiamo pochi problemi di questo genere, da quando qualche generazione fa abbiamo rimosso la maggior parte dei geni dannosi dal nostro pool genico.»
«Cosa?»
«I reati gravi erano puniti con la sterilizzazione non solo del responsabile, ma anche di tutti quelli che ne condividevano il cinquanta per cento del materiale genetico: genitori, fratelli e sorelle, figli. Questo ha prodotto un duplice effetto: per prima cosa. la società è stata ripulita dai geni dannosi, e…»
«Come ha fatto una specie non dedita all'agricoltura a sviluppare la genetica? Cioè, noi ci siamo arrivati partendo dalla coltivazione e dall'allevamento degli animali.»
«Anche se non abbiamo coltivato la terra o allevato gli animali per nutrirci, abbiamo addomesticato i lupi per cacciare. Ho una cagna che si chiama Pabo, a cui sono molto affezionato. I lupi si prestano a una riproduzione controllata, e i risultati sono lampanti.»
Mary annuì; era una spiegazione razionale, dopo tutto. «Stavi parlando dei due effetti che la sterilizzazione ha avuto sulla società.»
«Ah, già. Oltre all'eliminazione diretta dei geni difettosi, la procedura fu uno straordinario incentivo perché le famiglie controllassero i propri membri.»
«Suppongo che abbia funzionato.»
«Sì, ha funzionato. Tu che sei una genetista sai bene che l'unica forma di immortalità realmente esistente è quella genetica. La vita continua proprio grazie ai geni che garantiscono la propria riproduzione, o l'esistenza di copie di se stessi. Per questo la nostra giustizia ha focalizzato l'attenzione sui geni e non sulle persone. Oggigiorno, nella nostra società la criminalità è un fatto raro proprio perché il sistema giuridico ha individuato ciò che manda avanti l'esistenza: non gli individui, né le circostanze, ma i geni. Abbiamo fatto in modo che la legge diventasse la migliore strategia di sopravvivenza dei geni.»
«Immagino che Richard Dawkins sarebbe d'accordo» disse Mary. «Ma hai detto che questa… questa pratica della sterilizzazione avveniva in passato. E oggi?»
«È ancora in uso, ma c'è poco bisogno di praticarla.»
«Avete avuto tanto successo? Da voi la criminalità è scomparsa?»
«Quasi nessuno commette dei crimini dovuti al disordine genetico. Esistono sempre, naturalmente, altri disordini biochimici che sono alla base di comportamenti antisociali, ma su questi, nella maggioranza dei casi, si può intervenire con dei trattamenti farmacologici. È raro che si debba ricorrere alla sterilizzazione.»
«Una società che ha debellato la criminalità» rifletté Mary scuotendo la testa sbigottita. «Deve essere…» indugiò, chiedendosi se era il caso di arrendersi e accettare le conclusioni del Neandertal, poi completò il suo pensiero: «Deve essere una cosa fantastica.» Ma poi si accigliò, e aggiunse: «Comunque sia, dovranno pur verificarsi un sacco di casi irrisolti. Voglio dire, casi in cui chi ha commesso qualche reato la fa franca, e non viene curato chimicamente.»
Ponter sbatté le palpebre e ripeté: «Casi irrisolti?»
«Ma sì, quei crimini per i quali la polizia» bip «o qualsiasi cosa avete per far rispettare la legge non riesca a scoprire il colpevole.»
«Impossibile.»
Mary sentì un brivido nella schiena. Come la maggioranza dei canadesi, era contro la pena capitale proprio perché esiste la possibilità di mettere a morte un innocente. Tutta la nazione sentiva su di sé l'infamia per la ingiusta detenzione di Guy Paul Morin, marcito in galera dieci anni per un omicidio che non aveva commesso; o per Donald Marshall Jr., che di anni in carcere per un delitto non commesso ne aveva trascorsi undici; o ancora per l'innocente David Milgaard, sepolto in gattabuia per ventitré anni con l'accusa di stupro e omicidio. La punizione che Mary avrebbe voluto per il suo violentatore era quantomeno la castrazione; ma se, per questa sua sete di vendetta, avesse sbagliato persona, come sarebbe vissuta con quel rimorso? E il caso Marshall? No, non era vero che tutti i canadesi vivevano col rimorso: erano solo i bianchi a provare vergogna. Marshall era un indiano Mi'kmaq che si era protestato innocente e a cui la corte non aveva creduto semplicemente perché era indiano.
A pensarci bene, però, stava ragionando più come un ateo che come un vero credente. Quest'ultimo sarebbe stato convinto che Milgaard, Morin e Marshall avrebbero ricevuto la giusta ricompensa divina per tutti i torti subiti su questa terra. D'altra parta, lo stesso Figlio di Dio era stato messo a morte ingiustamente, persino in base ai dettami della legge romana; Ponzio Pilato non pensava che Cristo fosse colpevole del reato di cui era accusato.
Ma il mondo di Ponter sembrava più duro della corte di Pilato: la brutalità di una sterilizzazione forzata, fondata sulla convinzione assoluta che la giustizia non poteva sbagliare. Mary trattenne un brivido. «Come potete essere certi di aver condannato la persona giusta? O, più precisamente, di non aver condannato un innocente?»
«Perché ci basiamo sull'archivio degli alibi» rispose Ponter, come se quella fosse la cosa più naturale del mondo.
«Il cosa?»
Ancora seduto accanto a lei sul divano nello studio di Reuben, Ponter sollevò il braccio sinistro, ruotandolo per mostrarle il polso. «L'archivio degli alibi» ripeté. «Hak trasmette in continuazione informazioni sui miei spostamenti e le immagini tridimensionali di tutto quello che faccio. Naturalmente, da quando sono qui ha perso i contatti con l'archivio.»
Questa volta Mary non riuscì a trattenere un brivido. «Stai dicendo che vivi in una società totalitaria? Che siete costantemente sotto sorveglianza?»
«Sotto sorveglianza?» ripeté Ponter, con il grosso sopracciglio che scalava la fronte. «No, no. Nessuno controlla i dati trasmessi.»
Mary aggrottò la fronte, sempre più confusa. «Allora a cosa serve?»
«I dati sono registrati nel mio archivio degli alibi.»
«E cosa è, esattamente, questo archivio?»
«Un archivio di memoria computerizzato; un blocco di materia con un reticolo cristallino sul quale vengono fissate delle registrazioni inalterabili.»
«Ma se nessuno le controlla, a cosa serve?»
«Ho male interpretato la vostra parola 'alibi'?» chiese Hak con la voce femminile che usava quando parlava per proprio conto. «Credevo che un alibi fosse una prova che qualcuno si trovava da qualche altra parte quando è stato commesso un reato.»
«Uhm, sì» confermò Mary. «Questo è un alibi.»
«Bene» continuò Hak. «L'archivio di Ponter gli fornisce un alibi inconfutabile nel caso in cui fosse accusato di aver commesso qualche crimine.»
Mary sentì una fitta allo stomaco. «Mio Dio… Ponter, l'onere della prova spetta all'accusato?»
Ponter sbatté le palpebre, e Hak tradusse le sue parole con la voce maschile: «E a chi altri?»