Ponter giaceva su… be', supponeva che fosse un letto, anche se era sistemato su una struttura di metallo rigida e sollevata dal pavimento. Il cuscino era un sacchetto informe pieno di… non sapeva cosa, ma certo non erano pinoli secchi, come nel cuscino del suo letto.
L'uomo senza capelli — Ponter aveva notato della peluria sullo scalpo, deducendo che la calvizie non era congenita ma una scelta — aveva lasciato la stanza. Si era messo comodo, le mani intrecciate dietro la testa. La posizione non interferiva con l'antenna del suo Companion, che percepiva tutto entro il raggio di un paio di metri. Solo nel caso di oggetti più lontani avrebbe dovuto puntare le lenti direzionali.
«È notte» disse Ponter nella stanza vuota.
«Sì» rispose Hak. Con la testa poggiata sul braccio, poteva sentire le lievi vibrazioni dell'impianto cocleare.
«Ma fuori non è buio. La stanza ha una finestra, e mi sembra di percepire delle luci artificiali. Mi chiedo che funzione abbiano.»
Ponter si tirò su — era davvero strano far penzolare i piedi da un lato del letto per potersi alzare — e si avvicinò rapido alla finestra. C'era troppa luce per vedere le stelle, ma…
«Eccola» disse, puntando il polso verso l'alto in modo che anche Hak la vedesse.
«Sì, è proprio la luna terrestre» confermò Hak. «La sua fase — mezzaluna calante — corrisponde alla data di oggi, il 148/118/24.»
Ponter scosse la testa; tornò verso quello strano letto rialzato e si sedette sulla sponda. Era davvero scomodo, senza uno schienale cui poggiarsi. Si toccò la benda che l'uomo con il capo avvolto dalla stoffa gli aveva messo attorno alla testa. Si chiese se quel bendaggio nascondesse una grossa ferita. «Mi duole la testa.»
«Sì, ma hai visto anche tu le lastre che ti hanno fatto: non ci sono danni seri.»
«Già, ma stavo quasi per annegare.»
«Verissimo.»
«Quindi… il cervello potrebbe aver subito dei danni. Anossia e tutti i suoi disturbi…»
«Pensi di essere preda di allucinazioni?» gli domandò Hak.
«Be',» rispose indicando lo strano ambiente che lo circondava «come spiegare tutto questo, altrimenti?»
Hak rimase un attimo in silenzio, poi disse: «Se davvero è tutta un'allucinazione, allora il fatto che io ti contraddica sarebbe parte dell'allucinazione stessa. Pertanto è inutile cercare di convincerti, non credi?»
Ponter si sdraiò sul letto a fissare il soffitto vuoto, che non aveva orologi né decorazioni.
«Faresti meglio a dormirci su» concluse Hak. «Forse di giorno le cose avranno più senso.»
Ponter annuì impercettibilmente. «Rumore bianco» disse. Hak obbedì, e attraverso l'impianto cocleare cominciò a spandersi un sibilo dolce e piacevole. Ma il tempo che gli ci volle per addormentarsi parve un'eternità.
9
SECONDO GIORNO
SABATO 3 AGOSTO
148/118/25
Adikor Huld non riusciva a rimanere in casa. Lì dentro tutto gli ricordava il povero Ponter, così misteriosamente scomparso. La sua sedia preferita, il notes per gli appunti, le amate sculture: ovunque si posasse lo sguardo. Per questo era uscito sulla veranda, sedendosi a contemplare mestamente la natura circostante. Pabo gli si avvicinò e rimase a fissarlo a lungo; era la cagna di Ponter, che viveva lì ben prima di lui. L'avrebbe tenuta: almeno quel posto gli sarebbe sembrato meno vuoto. Pabo rientrò in casa. Sapeva che si sarebbe piazzata di fronte alla porta ad aspettare Ponter. Sin dal giorno prima, da quando era rincasato da solo, aveva fatto la spola tra i due ingressi, in attesa. Non gli era mai accaduto di tornare senza Ponter; il povero animale era sconcertato e la sua tristezza era evidente.
Anche lui si sentiva prigioniero di una tristezza invincibile. Aveva passato quasi tutto il giorno a piangere; non a piagnucolare o a lamentarsi, ma proprio a piangere, a volte persino senza accorgersene, fin quando qualche grossa lacrima non gocciolava sul braccio o sulla mano.
Le squadre di soccorso avevano cercato ovunque, senza trovare il minimo segno di Ponter. Esseri umani e cani addestrati avevano perlustrato tutte le gallerie, alla ricerca dell'odore di un uomo forse svenuto, nascosto da qualche parte. Avevano anche impiegato le apparecchiature portatili per rilevare il suo Companion.
Tutto invano. Ponter era letteralmente svanito nel nulla, senza lasciare la minima traccia.
Cambiò posizione. La sedia, intessuta di assi di pino, aveva un ampio schienale e braccioli sufficientemente larghi, su cui si potevano poggiare delle lattine: era davvero una sedia comoda. Senza dubbio chi l'aveva costruita — ne aveva dimenticato il nome, che comunque era inciso sullo schienale — aveva dato un bel contributo alla società. La gente aveva bisogno di mobili. Adikor possedeva un tavolo e due armadietti fatti dallo stesso falegname.
E a proposito di contributi, adesso quale sarebbe stato il suo senza il caro amico? Tra i due, il più brillante era Ponter: Adikor lo riconosceva e lo accettava. Come avrebbe fatto senza il suo amatissimo compagno?
Per quanto ne sapeva, il progetto del computer quantistico era concluso. Da solo non era in grado di andare avanti. Altri scienziati — come quel gruppo di donne al di là dell'oceano, a Evsoy, o quello degli uomini sulla costa occidentale del continente — avrebbero continuato il lavoro procedendo per linee parallele. Si augurava che avessero fortuna: ne avrebbe letto con interesse gli studi, anche se avrebbe sempre rimpianto che non erano stati loro due ad arrivare per primi alla soluzione.
I pioppi e le betulle, sulle cui radici muschiose fiorivano dei trillium bianchi, formavano una volta ombrosa intorno alla veranda. Uno scoiattolo sgambettò veloce; in lontananza s'udiva il martellio di un picchio su un tronco. Respirò a fondo, inalando polline e odore di terra e di pacciame.
Poi udì qualcosa in movimento; non era raro che anche di giorno qualche grosso animale si spingesse nei pressi delle abitazioni, e…
All'improvviso Pabo piombò a tutta velocità dalla porta sul retro: anche lei aveva sentito qualcosa. Adikor dilatò le narici. Qualcuno — un uomo — si stava avvicinando.
Era forse…?
Pabo cacciò un mugolio lamentoso. Eccolo.
No, non era Ponter. Certo che no.
Sentì una fitta al cuore. Pabo rientrò in casa, continuando la sua straziante attesa.
«Buongiorno» disse Adikor all'uomo che stava salendo sulla veranda. Non lo conosceva: un tipo ben piantato, con i capelli rossi, che indossava una camicia svasata blu scuro e pantaloni grigi.
«È lei Adikor Huld, che risiede qui nella periferia di Saldak?»
«In persona.»
L'uomo sollevò il braccio sinistro puntando il polso verso Adikor, per trasferire delle informazioni al suo Companion.
Adikor annuì e premette un pulsante del suo impianto. Vide il piccolo schermo lampeggiare mentre riceveva le informazioni. Pensava che si trattasse di una lettera di presentazione: forse quel tipo era un parente in visita, o magari un commerciante in cerca di lavoro, che mostrava le sue credenziali, dati che avrebbe potuto facilmente cancellare se non lo avessero interessato.
«Adikor Huld, è mio dovere informarti che Daklar Bolbay, in qualità di tabant dei minorenni Jasmel Ket e Megameg Bek, ha sporto una denuncia nei tuoi confronti con l'accusa di omicidio del loro padre, Ponter Boddit.»
«Cosa?» disse Adikor alzando lo sguardo. «Stai scherzando?»
«No, non scherzo.»
«Ma Daklar è — o meglio era — la compagna di Klast. Ci conosciamo da sempre.»
«Tuttavia ha inoltrato una denuncia» tagliò corto l'uomo. «Per favore, mostrami il polso in modo che possa accertarmi dell'avvenuto trasferimento della documentazione.»
Completamente sbalordito, Adikor obbedì. L'uomo diede una rapida occhiata al display - su cui compariva la scritta: 'Capo d'imputazione di Bolbay nei confronti di Huld, trasferimento completato' -, quindi tornò a guardare Adikor. «Ci sarà un dooslarm basadlarm — una vecchia frase che significava letteralmente 'chiedere poco prima di chiedere tanto'; si tratta di una sorta di udienza preliminare — in cui si stabilirà se si dovrà istituire un processo per il delitto commesso.»