Ma se quella non solo era la Terra, ma la stessa parte della Terra da dove veniva lui, allora dov'erano finiti tutti gli stormi di colombe migrataci? Da quando era lì non ne aveva vista nemmeno una. Forse il veleno che inquinava l'aria le aveva fatte fuggire.
Ma no.
No.
Quello non era né il futuro né il passato. Era il presente: un mondo parallelo, dove, incredibilmente, malgrado l'innata stupidità, i Gliksins non erano estinti.
«Ponter.» Era la voce di Reuben.
Alzò lo sguardo, con un'espressione smarrita, come per una fantasticheria infranta. «Sì?»
«Ponter, ti porteremo da qualche altra parte. Ancora non so dove. Ma be', tanto per cominciare, ti porteremo fuori di qui. Se vuoi, ehm, puoi venire a stare da me.»
Ponter piegò la testa da un lato mentre ascoltava la traduzione di Hak. Sembrava perplesso; probabilmente Hak non sapeva come rendere tutte le parole.
«Sì» disse infine. «Andare via da qui.»
Reuben gli fece segno di precederlo.
«Aprire la porta» disse Ponter con evidente piacere mentre spalancava la porta della stanza. «Attraversare» disse facendo seguire il gesto alle parole. Quindi si fermò ad aspettare Reuben e Louise. «Chiudere la porta» disse chiudendola dietro di sé. E poi fece un sorriso enorme, largo quasi trenta centimetri. «Ponter via.»
19
Seguendo le istruzioni del dottor Singh, Reuben Montego, Louise Benoìt e lo straordinario ospite arrivarono senza intoppi all'automobile che il dottore aveva parcheggiato nel garage riservato al personale dell'ospedale, una SUV color vinaccia, con la verniciatura scheggiata dal pietrisco della strada che portava alla miniera. Ponter si sdraiò sul sedile posteriore, coprendosi il viso con una copia aperta del Sudbury Star. Louise, che si era recata a piedi all'ospedale, si accomodò davanti. Aveva accettato l'invito a pranzo di Reuben, che si era offerto di riaccompagnarla a casa nel pomeriggio.
La radio era sintonizzata sulla stazione CJMX, che trasmetteva It's raining man nella versione di Geri Halliwell. «Allora,» disse Reuben lanciando un'occhiata alla ragazza «convincimi pure. Perché pensi che Ponter provenga da un mondo parallelo?»
Louise increspò un attimo le labbra — Dio, pensò Montego, è davvero fantastica — prima di chiedergli: «Come sei messo in fisica?»
«Fisica? Le nozioni base della scuola superiore. Oh, ho comprato una copia della Breve storia del tempo quando Stephen Hawking è venuto a Sudbury, ma l'ho appena sfogliata.»
«Ho capito,» disse Louise mentre Reuben svoltava a destra «lascia che ti faccia una domanda. Cosa succede se si spara un singolo fotone contro una barriera con due fenditure, dietro la quale c'è un pezzo di pellicola fotografica su cui vengono registrate le figure di interferenza?»
«Non lo so» rispose Reuben sincero.
«Be', una delle interpretazioni è che il singolo fotone si trasforma in un'onda di energia e, quando colpisce il muro, nelle fenditure si crea un nuovo fronte di onde, che provoca la classica interferenza, con picchi e minimi d'onda che si amplificano o si neutralizzano a vicenda.»
«Ho capito» disse Reuben, che cominciava a ricordare qualche vaga nozione predigerita.
«Come ti dicevo,» proseguì Louise «questa è solo un'interpretazione. Un'altra è che l'universo si divide, cioè in un brevissimo spazio di tempo si sdoppia. Nel primo universo il fotone — che a quello stadio è ancora una particella — attraversa la fenditura di sinistra, nell'altro quella di destra. E poiché non fa alcuna differenza in quale delle due fenditure il fotone passi, e se entri in questo o in quell'universo, i due universi collassano di nuovo in un'unica unità, per cui la figura di interferenza sarebbe la conseguenza di questa ricongiunzione.»
Reuben annuì, ritenendo che fosse la cosa giusta da fare.
«Quindi» continuò Louise «in fisica esiste una base sperimentale per ipotizzare la coesistenza temporale di universi paralleli: le stesse figure di interferenza si manifestano anche se ci si limita a far passare un fotone attraverso un paio di fenditure. Ma cosa avviene se i due universi non collassano e rimangono separati? Se, cioè, dopo la scissione, continuano a vivere autonomamente?»
«Cosa?» disse Reuben sforzandosi di seguire gli sviluppi di quell'ipotesi.
«Be', immaginiamo che l'universo, diciamo qualche decina di migliaia di anni fa, si sia diviso in due parti, quando sulla Terra ancora convivevano due specie di esseri umani: i nostri progenitori, i Cro-Magnon, - Reuben notò che aveva pronunciato la parola con accento francese, senza far sentire la g — e i progenitori di Ponter, gli antichi uomini di Neandertal. Non so bene per quanto tempo queste due specie abbiano convissuto insieme, ma…»
«Da centomila anni a circa ventisettemila anni fa» la interruppe Reuben.
Notando la sorpresa di Louise davanti a quella informazione così pertinente, il dottore si strinse nelle spalle spiegando: «Abbiamo fatto venire una genetista da Toronto, una certa Mary Vaughan. È stata lei a dirmelo.»
«Ah. Bene, quindi, stavo dicendo che durante quel lasso di tempo potrebbe essersi verificata una scissione, e i due universi hanno poi continuato a divergere. In uno sono diventati dominanti i nostri progenitori, nell'altro i Neandertal, che hanno sviluppato un loro linguaggio e una peculiare civiltà.»
A Reuben girava la testa. «Ma… se così fosse, come sono venuti in contatto i due universi?»
«Je ne sais pas» rispose Louise scuotendo il capo.
Si lasciarono Sudbury alle spalle, in direzione di Lively, una cittadina dal nome improprio che sorgeva nei pressi della miniera.
«Ponter,» disse Reuben «adesso puoi alzarti. Siamo usciti dalla città.»
L'uomo non si mosse.
Reuben capì che si era espresso in maniera troppo complessa. «Ponter, su» riprovò.
Sentì il fruscio del giornale, e nello specchietto retrovisore emerse il capoccione di Ponter, che confermò: «Su.»
«Stanotte dormirai a casa mia. Capito?» gli chiese.
Dopo qualche secondo, presumibilmente dopo la traduzione simultanea di Hak, il Neandertal rispose: «Sì.»
A quel punto parlò Hak: «Ponter deve mangiare.»
«Sì» lo rassicurò Reuben. «Sì, mangiamo subito.»
Venti minuti dopo giunsero a destinazione. Si trattava di un edificio a due piani con un paio di acri di terreno intorno, situato nella periferia di Lively. I tre scesero dalla macchina e si diressero verso casa. Ponter osservò affascinato Reuben che apriva la porta con le chiavi, e una volta dentro la sprangava con il chiavistello. Poi sorrise soddisfatto: «Fresco.» Era evidente che gradiva l'aria condizionata che rinfrescava la temperatura dell'appartamento.
«Be',» disse Reuben ai suoi ospiti «benvenuti nella mia umile dimora. Mettetevi pure comodi.»
«Non sei sposato?» gli chiese Louise guardandosi intorno.
Reuben rifletté sul significato della domanda; l'interpretazione a lui più favorevole era che stava verificando la sua disponibilità. Poteva invece anche darsi che la ragazza si fosse improvvisamente resa conto di trovarsi in una casa fuori mano con un uomo che conosceva appena, e per di più con un Neandertal maschio. Una terza interpretazione, rifletté notando la baraonda che regnava nel salotto, con riviste sparpagliate dappertutto e un piatto con avanzi di pizza sul tavolino, era che saltava agli occhi che vivesse da solo; nessuna donna avrebbe tollerato un tale disordine.
«No» rispose. «Lo ero, ma…»
Louise annuì. «Hai un bel gusto» disse osservando la mobilia di legno scuro verniciato, un misto di stile caraibico e canadese.
«È merito di mia moglie. È rimasto tutto com'era da quando ci siamo separati.»
«Ah. Vuoi una mano a preparare il pranzo?»
«Non preoccuparti. Metto qualche bistecca sul barbecue qui fuori nel giardino.»