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Di nuovo un lamento, proveniente da… dal muro compatto che doveva trovarsi lì davanti.

Con il cuore palpitante, sgranò gli occhi, invano. Impossibile vedere in quella tenebra assoluta.

Cominciò a nuotare nella direzione opposta, il gemito che si faceva sempre più insopportabile.

Dove si trovava? Dove poteva essere?

Il fracasso aumentava. Continuò a nuotare e…

Ahi! Che male!

Era finito di nuovo contro una parete dura e liscia. Quelle non erano certo le mura del laboratorio, ricoperte di un materiale insonorizzante.

Voooooooooom!

Improvvisamente l'acqua cominciò ad agitarsi, a mulinare e scrosciare, e Ponter fu come travolto da un fiume in piena. Tentò disperatamente di respirare ma ingoiò acqua e…

Un gran colpo sulla testa, e per la prima volta da quando aveva avuto inizio quella follia, vide una luce: stelle, davanti ai suoi occhi.

E poi di nuovo tenebra, e silenzio, e…

Nulla più.

Adikor Huld risalì nella sala di controllo, scuotendo il capo, incredulo.

Lui e Ponter erano amici da una vita. Erano entrambi dei 145, si erano conosciuti quando erano studenti all'Accademia delle scienze. Ponter non era tipo da fare scherzi, e comunque nella sala dei registri non aveva dove nascondersi. Al piano superiore erano situate parecchie uscite di emergenza, ma l'ambiente era chiuso e l'unico modo per venirne fuori era risalire nella sala di controllo. Alcune stanze avevano dei doppi fondi per l'alloggiamento dei cavi, che però lì erano a vista, mentre il pavimento era di vecchio granito levigato.

Quando era accaduta quella cosa inspiegabile, Adikor stava controllando i dati sul display; non ricordava alcun bagliore proveniente dalla finestra che dava sulla sala dove si trovava il suo collega. E se si fosse… be', cosa? Vaporizzato? In quel caso doveva esserci puzza di fumo o tracce di ozono nell'aria, invece niente. Semplicemente, era svanito nel nulla.

Si accasciò su una sedia — quella di Ponter -, sconcertato.

Non sapeva cosa fare, né gli veniva in mente qualcosa. Gli ci volle un po' per mettere a fuoco la situazione. Avrebbe dovuto avvertire l'amministrazione della città della scomparsa di Ponter, in modo da far scattare al più presto le ricerche. C'era anche una minima possibilità che il suolo avesse ceduto in qualche punto, inghiottendo l'amico, che poteva essere sprofondato sotto qualche altro livello della miniera. E se fosse andata così, poteva essersi ferito.

Si rialzò.

Il dottor Reuben Montego, i due infermieri e il ferito attraversarono le porte girevoli di vetro del Pronto soccorso dell'ospedale St. Joseph, un'estensione dell'ospedale regionale di Sudbury.

Il funzionario dell'accettazione era un Sikh sulla cinquantina, con un turbante verde giada, che appena li vide si informò: «Qual è il problema?»

Reuben sbirciò il cartellino, che recava il nome DR. N. SINGH. «Dottor Singh,» si presentò «sono il dottor Reuben Montego, il medico del distretto minerario di Creighton. Quest'uomo ha rischiato di annegare in una vasca contenente acqua pesante, e. come può vedere, ha subito un trauma cranico.»

«Acqua pesante?» si meravigliò Singh. «Ma dove può…»

«Nell'osservatorio dei neutrini» tagliò corto Reuben.

«Ah, già» disse Singh. Si girò e fece un segno perché portassero una sedia a rotelle, poi diede uno sguardo al ferito e scribacchiò qualcosa su dei fogli. «Forma del corpo insolita» disse. «Rilievi sopraorbitari prominenti; torace ampio; cospicuo sviluppo muscolare; arti corti a livello di avambraccio e gamba, e… ehi! E questo cos'è?»

Reuben scosse la testa. «Non lo so. Sembra innestato nella pelle.»

«Molto strano» commentò Singh. «Come si sente?» chiese guardando il paziente negli occhi.

«Non parla inglese» lo avvertì Reuben.

«Ah» fece il Sikh. «Be', le ossa parleranno per lui. Portiamolo in Radiologia.»

Reuben Montego passeggiava nervosamente nella sala del pronto soccorso, scambiando ogni tanto qualche battuta con i colleghi che conosceva. Finalmente, Singh annunciò che le lastre erano pronte. Reuben sperava di poter entrare, per cortesia professionale, e in effetti Singh gli fece cenno di seguirlo.

Il ferito era ancora nella sala raggi, probabilmente nel caso Singh decidesse di fare ulteriori indagini. Era seduto sulla sedia a rotelle, e a Reuben parve più spaventato di quanto lo sarebbe stato un bambino in condizioni analoghe. Il tecnico radiologo aveva fissato le lastre — una proiezione frontale e una laterale — su un pannello illuminato, e i due medici si avvicinarono per esaminarle.

«Lo vede questo?» chiese Reuben con un filo di voce.

«Straordinario» fu il commento di Singh. «Davvero straordinario.»

Il cranio era molto più lungo del normale, e presentava una protuberanza tondeggiante nella parte posteriore, simile a uno chignon. Il doppio arco sopraccigliare era prominente, la fronte bassa. La cavità nasale era enorme, con strane sporgenze triangolari che fuoriuscivano da entrambi i lati. La gigantesca mandibola, visibile nella parte inferiore della lastra, rivelava la mancanza del mento, e un interstizio tra l'ultimo molare e il resto della dentatura.

«Non ho mai visto niente di simile» disse Reuben stupefatto.

Singh aveva gli occhi castani spalancati. «Io sì» disse. «Io sì.» Si voltò a guardare l'uomo, che seduto sulla sedia a rotelle stava borbottando qualcosa in un gergo incomprensibile, quindi tornò a osservare le spettrali immagini grigie che aveva davanti. «Non è possibile» disse il Sikh. «Non è possibile.»

«Cosa?»

«Non può essere…»

«Che cosa? Dottor Singh, per amor di Dio…»

Singh alzò una mano. «Non mi so spiegare come sia possibile una cosa del genere, ma…»

«Insomma! Allora?»

«Questo suo paziente» rispose Singh costernato «sembra proprio un Neandertal.»

6

«Buonanotte, professoressa Vaughan.»

«Buonanotte, Daria. A domani.» Mary Vaughan sbirciò l'orologio: le 20.55. «Fai attenzione.»

Già fuori dalla porta del laboratorio, la giovane studentessa rispose sorridendo: «Va bene.»

Mary la guardò allontanarsi, pensando con nostalgia al tempo in cui era magra come lei. Aveva trentotto anni, da tempo era separata e senza figli.

Tornò a studiare la pellicola autoradiografata, scandendo a voce alta nucleotide per nucleotide. Stava studiando il DNA di una colomba migratrice conservata al Museo Field di Storia naturale, che era stato mandato alla York University nel tentativo di ricostruirne la catena genetica. Erano già stati fatti dei tentativi, tutti falliti per il cattivo stato di conservazione del DNA, ma il laboratorio diretto da Mary aveva al suo attivo numerosi successi.

Purtroppo, però, la sequenza si era decomposta, e da quel campione non c'era modo di determinare la catena di nucleotidi originali.

Mary si grattò il naso. Quella sera avrebbe voluto estrarre più DNA dal materiale che stava trattando, ma si sentiva troppo stanca.

L'orologio appeso alla parete segnava le 21.25: non era poi così tardi. La maggior parte delle lezioni serali estive dell'università terminavano alle nove, per cui in giro doveva esserci ancora un sacco di gente. Se avesse lavorato un'altra oretta avrebbe potuto chiamare qualcuno della sorveglianza per farsi accompagnare sino alla macchina, ma a quell'ora non sembrava necessario. Si tolse il camice verde e lo appese all'attaccapanni accanto alla porta. Era agosto; il laboratorio aveva l'aria condizionata, ma fuori sicuramente faceva ancora caldo, e si profilava un'ennesima fastidiosa nottata d'afa.

Smorzò le luci del laboratorio; spegnendosi, uno dei neon mandò un sibilo. Chiuse la porta e scese nel corridoio del secondo piano, oltrepassò la macchina distributrice della Pepsi (la società aveva dato due milioni di dollari alla York University per la fornitura esclusiva delle sue bevande).

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