Reuben aggrottò la fronte, poi comprese: «Aprire. Stai aprendo la porta. O la stai chiudendo. Apertura. Chiusura. Apertura. Chiusura.»
Ponter si avvicinò alla finestra, che indicò con un ampio movimento delle mani.
«Finestra» disse Reuben.
Tamburellò con le dita sul vetro.
«Vetro» gli insegnò Reuben.
E quando Ponter tirò su la finestra, la voce femminile disse: «Sto aprendo la finestra.»
«Sì!» esclamò Reuben. «Aprire la finestra! Sì.»
Ponter richiuse la finestra. «Sto chiudendo la finestra» disse la voce femminile.
«Sì» ripeté Reuben. «Sì, è così.»
13
Adikor Huld aveva dimenticato cosa si provava durante gli Ultimi Cinque. Ne sentiva l'odore nell'aria, l'odore di tutte le donne. Mancava poco al loro ciclo, il cui inizio, che avrebbe coinciso con la luna nuova, segnava la fine degli Ultimi Cinque e del mese in corso, e l'inizio del successivo. E a giudicare dai feromoni presenti nell'aria, quel momento sarebbe presto giunto.
Naturalmente non tutte avrebbero avuto le mestruazioni. Per esempio non le prepubere — membri della generazione 148 -, né la maggior parte della generazione 144, in menopausa, e quasi tutte quelle delle generazioni precedenti, e nemmeno quelle incinte o in allattamento. Presto sarebbe arrivato il momento della generazione 149, mentre la 148 era già da tempo svezzata. Eppoi c'erano anche le sterili, ma tutte le altre donne che vivevano al Centro, fiutando a vicenda i feromoni che producevano, avevano il ciclo mestruale sincronizzato.
Adikor sapeva bene che quei cambiamenti ormonali rendevano le donne piuttosto irascibili, e che quella era la ragione per cui i loro antenati, molto prima di quando avevano cominciato a numerare le generazioni, si trasferivano sulle colline durante quel periodo.
L'autista l'aveva lasciato all'indirizzo richiesto, un edificio rettangolare costruito parzialmente in arboricoltura, con malta, mattoni e con i pannelli solari sul tetto. Respirò a fondo con la bocca, per calmarsi, evitando di fiutare l'aria. Espirò lentamente, quindi si avviò lungo il piccolo sentiero che attraversava rocce, fiori, erba e arbusti sistemati sul fronte della casa. La porta d'ingresso era socchiusa. «Salve! C'è qualcuno in casa?» chiamò a voce alta.
Jasmel Ket comparve sulla porta. Era alta, snella, già oltre la duecentocinquantesima luna, quella della maggiore età. Il viso era quello di Ponter. E di Klast; per sua fortuna aveva ereditato gli occhi del padre e le guance della madre, e non il contrario.
«C-c-cosa…» balbettò la ragazza. Poi, con grande sforzo, riuscì a dire: «Cosa ci fai qui?»
«Buongiorno, Jasmel» la salutò Adikor. «È tanto che non ci vediamo.»
«Devi essere in un mare di guai per venire fin qui, e per di più durante gli Ultimi Cinque!»
«Non ho ucciso tuo padre. Mi devi credere.»
«È scomparso, no? Se è vivo, dove si trova?»
«Ma se è morto, dov'è il suo cadavere?»
«Non lo so. Daklar dice che lo hai fatto sparire.»
«È in casa?»
«No, è uscita.»
«Posso entrare?»
Jasmel lanciò uno sguardo fugace al suo Companion, come per sincerarsi che funzionasse. «Credo… credo di sì» disse infine.
«Grazie.» La ragazza si fece da parte per permettergli di entrare. Dentro era piacevolmente fresco, un vero sollievo dal caldo estivo. Un robot era alle prese con dei lavori domestici; sollevava dei soprammobili con le sue braccette da insetto e ne aspirava la polvere.
«Dov'è tua sorella?» chiese Adikor.
«Megameg» rispose Jasmel con enfasi, facendogli pesare di aver dimenticato il nome. «È andata a giocare a barstalk con i suoi amici.»
Forse era il caso di dimostrarle che sapeva tutto di Megameg. In effetti, Ponter parlava spesso delle sue figlie. In altre circostanze avrebbe lasciato perdere, ma adesso la situazione era tale che doveva farlo. «Megameg» ripeté Adikor. «Sì, Megameg Bek. Una 148, giusto? Un po' piccolina per la sua età, ma piena di energie. Da grande vuole diventare un chirurgo, vero?»
Jasmel non rispose.
«E tu,» aggiunse per essere ancora più chiaro «Jasmel Ket, stai studiando per diventare una storica. In particolare sei interessata alla pre-generazione-uno di Evsoy, ma ti piacciono anche le generazioni dai trenta ai quaranta che vissero su questo continente, e…»
«Va bene» lo interruppe Jasmel.
«Tuo padre parla di voi molto spesso, amorevolmente e con grande orgoglio.»
Jasmel inarcò lievemente le sopracciglia, palesemente sorpresa e compiaciuta.
«Non l'ho ucciso» ripeté Adikor. «Credimi, mi manca incredibilmente, e…» Si fermò. In effetti dalla scomparsa di Ponter non era ancora cominciato il periodo in cui Due diventano Uno, quindi Jasmel non aveva ancora avuto modo di sentire la mancanza del padre. Anzi, sarebbe stato strano per lei incontrarlo in quei giorni, quando Due non erano più Uno. Lui, invece, aveva sperimentato in ogni momento di veglia la realtà della sua assenza, nella casa in cui vivevano, mai così vuota. Ma era inutile stare lì a fare una graduatoria del dolore. In fin dei conti, malgrado tutto l'amore che provava per Ponter, Jasmel era la figlia, quindi geneticamente imparentata.
Forse la ragazza aveva pensato la stessa cosa, perché disse: «Anche a me manca molto. Già da adesso. Io…» Distolse lo sguardo. «Non ho trascorso molto tempo con lui l'ultima volta che Due diventano Uno. Sai, c'è questo ragazzo che…»
Adikor annuì. Non sapeva bene cosa volesse dire essere padre di una femmina. Non aveva avuto figli della generazione 147; certo, quando quella generazione era stata concepita si era accoppiato con Lurt, ma la donna non era rimasta incinta, ed entrambi avevano dovuto sopportare le battute degli amici sul fatto che un fisico e un chimico non capiscono niente di biologia. In seguito aveva avuto un figlio della generazione 148, Dab, un ragazzino che viveva ancora con la madre, e quella volta al mese che si vedevano voleva trascorrere con lui più tempo possibile.
A ripensarci, Ponter si era… be', non proprio lamentato. Sapeva che così andavano le cose, ma il fatto che Jasmel gli dedicasse così poco tempo nel periodo in cui potevano stare insieme lo aveva addolorato. E adesso Jasmel si stava rendendo conto che suo padre non sarebbe più tornato, che l'aveva trascurato e che ormai era troppo tardi per rimediare, che non l'avrebbe più stretta tra le braccia, né avrebbe più sentito la sua voce chiederle come andassero le cose e farle i complimenti o raccontarle storie divertenti.
Adikor si guardò intorno e si accomodò su una sedia di legno, opera dello stesso falegname che aveva costruito quelle che Ponter teneva sulla veranda di casa.
Jasmel gli sedette di fronte. Dietro di lei il robot uscì dalla porta, diretto verso altre stanze.
«Lo sai cosa mi accade se mi riconoscono colpevole?» le chiese Adikor.
Jasmel chiuse gli occhi, forse per non abbassare lo sguardo. «Sì» disse in un sussurro. Ma subito dopo, sulla difensiva: «Che differenza fa? Hai già due figli.»
«No,» rispose Adikor «ne ho solo uno, un 148.»
«Oh» disse Jasmel dolcemente, forse imbarazzata dal fatto che conoscesse meno il compagno di suo padre di quanto quest'ultimo conoscesse la sua famiglia.
«E comunque non si tratta solo di me. Saranno sterilizzati anche mio figlio Dab e mia sorella Kelon: tutti quelli che hanno il cinquanta per cento del mio materiale genetico.»
Naturalmente, non vivevano più nel barbaro passato ma nell'era delle prove genetiche: di regola, se Kelon o Dab avessero dimostrato di non aver ereditato il gene aberrante di Adikor, avrebbero acquisito il diritto di non essere sterilizzati. E comunque, non tutti i reati potevano essere riportati a determinate cause genetiche. D'altra parte, il delitto era un crimine così efferato che non si poteva rischiare che i caratteri genetici del colpevole fossero trasmessi ai discendenti.