Gli occhi violacei del giudice Sard erano spalancati su Adikor. «Non ho mai veduto nulla di simile, né dentro né fuori un tribunale. Scienziato Huld, che cosa le succede?»
Adikor stava ancora tremando. Bolbay doveva averlo scoperto. Era stata la compagna di Klast nello stesso periodo di Ponter. Ma… ma… poteva essere quello il motivo per cui lo stava perseguitando con quella furia? Quella la molla che la spingeva? Era certo che Ponter non avrebbe mai voluto una cosa simile.
Adikor era stato in terapia per le sue difficoltà nel controllare gli accessi d'ira. Il caro Ponter aveva scoperto che la malattia era dovuta a uno squilibrio chimico, e quell'uomo meraviglioso, durante tutto il periodo del trattamento, era andato a stare da lui.
Ma adesso… adesso Bolbay lo aveva preso in giro, provocandolo e spingendolo a tradirsi in modo così plateale.
«Vostro Onore» disse sforzandosi — sforzandosi, sforzandosi! - di apparire tranquillo. Doveva parlarne? Poteva farlo? Abbassò il capo. «Chiedo scusa per il mio comportamento.»
La voce del giudice Sard vibrava ancora, sbigottita: «Daklar Bolbay, ci sono altre prove a sostegno della sua accusa?»
La donna, raggiunto il suo scopo, era il ritratto della ragionevolezza. «Se mi è concesso, Vostro Onore, vorrei ancora parlare di una certa cosetta…»
23
Al termine della riunione tenutasi nella sala conferenze della Inco, Reuben Montego invitò tutti i partecipanti ad un barbecue a casa sua. Ponter manifestò la sua soddisfazione sfoderando un sorriso smagliante: evidentemente aveva gradito il pranzo del giorno prima. Louise non se lo fece ripetere: con l'osservatorio chiuso, aveva un sacco di tempo libero. Anche Mary accettò; si profilava una serata simpatica, che le avrebbe evitato la solitudine di una stanza d'albergo. Solo la professoressa Mah declinò l'invito, dovendo tornare a Ottawa, poiché alle dieci di quella sera avrebbe incontrato il Primo Ministro.
La faccenda stava mettendo in subbuglio i mezzi d'informazione; il servizio d'ordine della Inco li aveva preavvertiti che la stampa era in attesa fuori dai cancelli della miniera. Per evitare quel massacro, Reuben e Louise elaborarono un piano.
Lasciarono nel parcheggio della miniera la Dodge Neon rossa che la Inco aveva offerto a Mary per il periodo della sua permanenza a Sudbury, e sgattaiolarono via con la Ford Explorer nera di Louise. La targa personalizzata, con la scritta D20, incuriosì la genetista: era la formula chimica dell'acqua pesante. Louise prese una coperta dal bagagliaio — nel Quebec e nell'Ontario è consigliabile portare delle coperte nella propria automobile, nel malcapitato caso di avaria — e la avvolse intorno a Mary.
Lì sotto sentiva un caldo del diavolo, ma si consolò con l'aria condizionata. Certo, considerò, pochi dottorandi si sarebbero permessi una cosa del genere, ma Louise era davvero una ragazza piena di risorse.
Mentre percorrevano la strada sbrecciata che conduceva all'ingresso della miniera, Mary fece del suo meglio per dare l'impressione che li sotto ci fosse un individuo corpulento. Louise, da parte sua, procedette a tavoletta come se volesse seminare qualcuno.
«Stiamo attraversando il cancello» comunicò a Mary, sempre nascosta sotto la coperta. «Funziona! Ci stanno seguendo.»
Louise li depistò dirigendosi a Sudbury. Se il piano avesse funzionato, una volta sgombrato il campo Reuben avrebbe portato Ponter a casa sua, alla periferia di Lively.
Louise parcheggiò di fronte al piccolo edificio dove viveva. Dallo stridore delle gomme Mary arguì che diverse automobili si stavano fermando intorno. La ragazza scese e aprì la portiera: «Può scendere. Il giochetto è riuscito.»
Mary sentì uno sbattere di portiere. «Voilà!» gridò Louise aiutandola a togliersi la coperta di dosso, mentre Mary sorrideva imbarazzata ai giornalisti.
«Oh, merda!» esclamò uno di loro. «Dannazione!» gli fece eco un altro.
Ma una terza — ce n'erano una dozzina — fu più astuta. «Lei è la dottoressa Vaughan, vero? La genetista» le gridò dietro.
Mary annuì.
«Allora» chiese la reporter «si tratta o no di un Neandertal?»
Ci vollero quarantacinque minuti perché riuscissero a districarsi dai giornalisti, che, sebbene delusi per non aver trovato Ponter, furono ben contenti delle informazioni sui risultati del test sul suo DNA. Infine riuscirono a guadagnare l'entrata e a salire al terzo piano, nel piccolo appartamento di Louise. Aspettarono finché l'ultimo giornalista ebbe lasciato il parcheggio, ben visibile dalla finestra della camera da letto, quindi, non prima di aver preso dal frigo un paio di bottiglie di vino, scesero di nuovo in macchina e si avviarono verso Lively.
Giunsero a casa di Reuben verso le sei del pomeriggio. Non sapendo a che ora sarebbero arrivate, Reuben non aveva ancora cominciato a preparare la cena. Nel frattempo, Ponter si era disteso sul divano nel soggiorno; quando lo vide, Mary pensò che si sentisse poco bene, cosa del resto comprensibilissima con quello che stava passando.
Louise si offrì di preparare la cena. Da quello che disse, Mary scopri che era vegetariana e che era dispiaciuta di non aver dato una mano ai fornelli la sera precedente. Reuben accettò con entusiasmo l'aiuto della ragazza: del resto, considerò Mary, quale maschio tradizionalista non l'avrebbe fatto?
«Mary, Ponter, mettetevi pure comodi. Io e Louise prepariamo il barbecue.»
Il cuore di Mary ebbe un sobbalzo, e le si seccò la bocca. L'ultima volta che era rimasta sola con un uomo era stato…
Ma adesso era ancora pomeriggio, e…
… e Ponter non era…
Poteva anche essere banale, ma era inconfutabile: Ponter non era come gli altri uomini.
Sarebbe sicuramente andato tutto bene; e, comunque, Reuben e Louise erano lì vicino. Tirò un lungo sospiro, cercando di calmarsi. «Ma certo» disse piano. «Naturalmente.»
«Benissimo. Nel frigo c'è una sprite e della birra; il vino di Louise lo apriamo a cena.» I due andarono in cucina, e dopo un paio di minuti uscirono in giardino. Reuben chiuse la porta a vetri che dava nel giardino per non disperdere l'aria condizionata. Con la porta chiusa e il ronzio del condizionatore, se avesse gridato forse non l'avrebbero sentita.
Si voltò verso Ponter, che nel frattempo si era rimesso in piedi, e accennò un timido sorriso, che lui subito le restituì.
A ben vedere, non era poi così brutto; tutt'altro. Il viso però era davvero insolito: un po' come se qualcuno avesse modellato troppo all'infuori la maschera di creta di un volto umano.
«Salve» la salutò cordialmente con la sua voce profonda.
«Ciao.»
«Imbarazzante» disse Ponter.
Quella situazione le ricordò il viaggio in Germania. Era stata una tortura non riuscire a farsi capire, sforzarsi di comprendere le istruzioni scritte su un telefono a gettoni, o al ristorante, quando mendicava spiegazioni su piatti incomprensibili. Presumibilmente anche per Ponter — uno scienziato, un intellettuale! — era avvilente essere costretto a comunicare come un bambino.
Le sue emozioni più immediate non erano un mistero: sorrideva, aggrottava la fronte, inarcava il biondo sopracciglio, rideva; non lo aveva visto piangere, ma probabilmente poteva farlo. Purtroppo non disponeva di un vocabolario sufficiente per comunicare le sue sensazioni; paradossalmente, era stato più semplice parlare di meccanica quantistica che di sentimenti.
Mary annuì partecipe. «Sì, è imbarazzante non poter dire quello che si prova.»
Ponter piegò lievemente il capo. Aveva capito? Poi si guardò intorno, come in cerca di qualcosa. «Le vostre stanze non hanno…» Aggrottò la fronte, palesemente frustrato, forse nel tentativo di comunicare un concetto che il suo impianto non sapeva come esprimere. Si avvicinò alla grossa libreria incassata nel muro, colma di libri gialli, di DVD e piccole incisioni giamaicane, e cominciò a strofinarsi la schiena contro lo spigolo.