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Cercò di ignorare gli sguardi meravigliati delle donne.

No, non potevano riconoscerlo colpevole. Non c'era nessun cadavere!

Eppure, se l'avessero fatto…

L'apparecchio toccò il suolo, e Adikor si contorse sul sedile. Sentiva le contrazioni dello scroto, come se tutto il contenuto volesse risalire su nel torace, al riparo.

12

Reuben Montego era felice che Mary Vaughan avesse accettato l'invito. In fondo, sperava che la genetista provasse che Ponter non era un Neandertal, ma un semplice, vecchio, comunissimo esemplare umano, in modo che quella faccenda dimostrasse di avere un senso. Dopo una notte agitata, si era reso conto che era più semplice mandar giù l'idea che qualche fanatico si fosse fatto delle plastiche facciali per sembrare un Neandertal piuttosto che avere scoperto un esemplare autentico di quella specie estinta. Dopo tutto, Ponter poteva davvero essere l'adepto di qualche setta stramba. Se sin da piccolo, durante la crescita, avesse indossato dei caschi, scolpiti con la forma del cranio della specie dei Neandertal, la sua testa ne avrebbe assunto la forma, e in seguito poteva aver fatto un intervento alla mandibola…

Sì, poteva essere, pensò Reuben.

La professoressa Vaughan non sarebbe arrivata prima di un paio d'ore: aveva tempo di fare un salto in ospedale a dare un'occhiata al misterioso degente.

La prima cosa che notò entrando nella stanza furono i cerchi scuri attorno agli occhi di Ponter. Lui non aveva quel problema; quando viveva a Kingston (in Jamaica, non nella Kingston dell'Ontario, dove pure aveva abitato per un po') i genitori non avevano mai scoperto che spesso trascorreva buona parte della notte a leggere fumetti.

Era probabile che il dottor Singh gli avesse somministrato un sedativo. Anche nell'ipotesi che fosse un Neandertal, quasi certamente i medicinali impiegati per gli umani avrebbero avuto effetto. Lui, comunque, in un caso del genere avrebbe agito con prudenza.

Ad ogni modo, trovò Ponter seduto sul bordo del letto, che consumava la colazione appena portatagli da un'infermiera. Aveva guardato per un po' il vassoio, come se mancasse qualcosa. Poi aveva avvolto la mano destra nel tovagliolo di lino bianco e aveva preso le fette di bacon, una alla volta, e il cucchiaio invece della forchetta per le uova strapazzate.

Annusò il toast e lo rimise nel piatto, disdegnando anche il contenuto di una scatoletta di Corn Flakes della Kellogg's, anche se sembrò divertirsi a scoprire come aprirla in modo da trasformarla in una scodella. Dopo un cauto assaggio, svuotò in un sol sorso la bottiglietta di plastica di succo d'arancia, ma non degnò della minima attenzione né il caffè né il cartone da un quarto di latte parzialmente scremato.

Reuben andò nel bagno per prendere dell'acqua… ma si fermò di botto. Ponter non era di quel mondo. No, non poteva esserlo. Oh, è piuttosto normale dimenticarsi di tirare l'acqua, ma…

Non solo non aveva tirato l'acqua: per pulirsi, invece della carta igienica aveva usato l'asciugamano. Nessuno nel mondo civilizzato avrebbe fatto quell'errore. Eppure doveva appartenere a una cultura tecnologicamente evoluta, a giudicare da quell'impianto affascinante inserito nel polso sinistro.

Be', il modo migliore per scoprire qualcosa era provare a comunicare con lui. Indubbiamente non parlava — o non voleva parlare — inglese, ma, come diceva sua nonna, volere è potere.

«Ponter» lo chiamò adoperando l'unica parola che aveva appreso la sera precedente.

Passò un lungo momento prima che l'uomo alzasse la testa; troppo lungo, temette il dottore. Poi fece un cenno, come se non l'avesse riconosciuto, ma alla fine rispose: «Reuben.»

Questi sorrise. «Giusto, mi chiamo Reuben.» E sempre parlando lentamente, aggiunse: «E tu ti chiami Ponter.»

«Ponter, ka» rispose l'uomo.

Reuben indicò l'impianto nel polso sinistro, chiedendogli: «Cos'è questo?»

Ponter alzò il braccio e rispose: «Pasalab.» Poi ripeté lentamente, scandendo le sillabe. Sembrava aver compreso che si trattava di una lezione di lingua: «Pas-a-lab.»

Ma Reuben si accorse di aver fatto un errore; nella sua lingua non esisteva alcun termine corrispettivo; 'impianto' o 'innesto' erano parole troppo generiche. Decise quindi di cambiare argomento. Alzò un dito e disse: «Uno.»

«Kolb» disse Ponter.

«Due» continuò Reuben facendo il segno della pace.

«Dak» disse Ponter.

«Tre.»

«Narb.»

Le quattro dita: «Quattro.»

«Dost.»

Con la mano aperta: «Cinque.»

«Alm.»

Continuò a contare fino a dieci, aggiungendo un dito dell'altra mano a ogni numero. Poi provò dei numeri a caso, per verificare che Ponter ripetesse la stessa parola per il numero corrispettivo. Da quanto riuscì a stabilire — non era semplice ricordare quelle parole sconosciute — il Neandertal non sbagliò mai: sembrava che si trattasse di un vero e proprio linguaggio.

Quindi cominciò a indicare parti del corpo; si puntò un indice sul volto rasato e disse: «Testa.»

Ponter fece lo stesso con la sua, rispondendo: «Kadun.»

Quindi mise l'indice sull'occhio sinistro: «Occhio.»

A quel punto Ponter fece una cosa sorprendente. Alzò la mano destra, il palmo in fuori come a chiedere di aspettare un attimo, e cominciò a parlare velocemente nella sua lingua, la testa lievemente abbassata e inclinata, come se stesse conversando con qualcuno per mezzo di un telefono invisibile.

«È uno spettacolo patetico» disse Hak attraverso l'impianto cocleare.

«Pensi?» fu la risposta di Ponter. «Non siamo mica tutti come te, sai? Stiamo semplicemente scambiandoci delle informazioni.»

«Tanto peggio» commentò Hak. «Se avessi fatto attenzione a quello che ti hanno detto, o mentre parlavano tra di loro, avresti appreso molto più del loro linguaggio che non una semplice lista di nomi. Sulla base del contesto in cui sono state usate, ho catalogato centosedici parole della loro lingua del cui significato sono sicuro, e altre duecentoquaranta con una certa attendibilità.»

«Senti,» fece Ponter piuttosto seccato «se pensi di potertela cavare meglio di me…»

«Con tutto il rispetto, nell'apprendimento di una lingua uno scimpanzé farebbe meglio di te.»

«Bene!» esclamò Ponter, chinandosi e sull'impianto cocleare e attivando l'altoparlante. «Fa pure!»

«Con piacere» disse Hak prima di rivolgersi a Reuben.

«Salve» disse una voce femminile. Il cuore di Reuben sobbalzò. «Ehi, lassù.»

Reuben guardò in basso. La voce proveniva dallo strano aggeggio incastrato nel polso sinistro di Ponter. «Parla rivolto alla mano» disse la voce.

«Uhm. Salve» rispose.

«Salve Reuben» disse la voce femminile. «Mi chiamo Hak.»

«Hak» ripeté il medico scuotendo impercettibilmente la testa. «Dove sei?»

«Sono qui.»

«No, voglio dire, dove ti trovi? Ho capito che quell'aggeggio è una specie di cellulare… a proposito, qui in ospedale non si possono usare, potrebbero interferire con le apparecchiature elettroniche. Potremmo richiamarti noi…»

Bip!

Reuben si fermò. Il rumore proveniva dall'impianto.

«Lezione di lingua» disse Hak. «Ascoltare.»

«Lezione? Ma…»

«Ascoltare» ripeté Hak.

«Uhm, sì, va bene.»

A quel punto Ponter annuì, come rispondendo a una domanda che Reuben non aveva sentito. Quindi indicò la porta della stanza.

«Quella?» chiese Reuben. «Oh, quella è una porta.»

«Troppe parole» disse Hak.

Reuben annuì. «Porta» disse. «Porta.»

Ponter si alzò dal letto e si diresse verso la porta. Posò la grossa mano sulla maniglia e aprì la porta.

«Uhm» fece Reuben pensieroso, prima di capire: «Oh, aprire. Aprire.»

Ponter richiuse la porta.

«Chiudere.»

Ponter aprì e chiuse la porta ripetutamente.

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