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Ma gliel'avrebbe fatta vedere lui. Clifford Stone non era ancora liquidato. Qualunque cosa fosse successa alla stazione, lui l'avrebbe scoperto e l'avrebbe rimessa a posto. Soltanto allora si sarebbe visto chi aveva fatto le scarpe all'altro.

Lui sarebbe andato sino in fondo.

Personalmente!

Nel frattempo, la Thorvaldson aveva scandagliato col sonar il luogo in cui si doveva trovare la stazione, ma invano. Sembrava che la morfologia del fondale si fosse trasformata, rivelando una fossa che, fino a pochi giorni prima, non c'era. Stone non poteva negare che, al pensiero di quella fossa, gli veniva la tremarella, non diversamente dall'equipaggio e dall'équipe tecnica. Ma rimosse la paura. Pensò solo al viaggio sottomarino e al fatto che, alla fine, avrebbe squarciato il velo di mistero.

Clifford Stone, l'impavido. Un uomo d'azione!

Sul ponte di poppa della Thorvaldson, il batiscafo attendeva di portarlo a novecento metri di profondità. Prima, tuttavia, avrebbero dovuto mandare in ricognizione il robot, come avevano caldamente consigliato Jean-Jacques Alban e tutti gli altri a bordo. Victor aveva ottime telecamere, un braccio prensile assai sensibile e gli strumenti necessari per una rapida acquisizione dei dati. Ma se Stone fosse andato di persona, avrebbe fatto più impressione. Alla Statoil avrebbero capito che Clifford Stone non era un amico a mezzo servizio. Inoltre lui non condivideva il punto di vista di Alban. Sulla Sonne aveva parlato con Gerhard Bohrmann dei viaggi in batiscafo. Bohrmann si era immerso col leggendario Alvin al largo dell'Oregon. Mentre lo raccontava, i suoi occhi avevano assunto un'aria trasognata. Aveva detto: «Ho visto migliaia di riprese video fatte dai robot, tutte molto impressionanti. Ma essere di persona lì dentro, essere di persona là sotto, quella tridimensionalità… Non pensavo fosse così. Non c'è paragone». Aveva anche detto che nessun organo di senso artificiale e nessuna acquisizione mediata avrebbe potuto sostituire quell'esperienza.

Stone sorrise, cupo.

Stavolta era il suo turno. Si era mosso con intelligenza. Grazie ai suoi ottimi contatti era riuscito a procurare il batiscafo. Si trattava di un DR 1002, un Deep Rover dell'americana Deep Ocean Engineering, uno dei modelli di nuova generazione, piccolo e maneggevole. Sullo scafo, da cui partivano due braccia prensili snodate, c'era una sfera completamente trasparente. All'interno si vedevano due sedili, apparentemente comodi, con a fianco tutti gli strumenti di controllo. Quando si avvicinò al Deep Rover, Stone si mostrò molto soddisfatto della scelta. Il batiscafo era legato alla gomena del braccio della gru e sollevato in modo che ci si potesse infilare dalla botola sul pavimento. Il pilota, un uomo tarchiato, ex aviatore della Marina, che tutti chiamavano semplicemente Eddie, era già all'interno e controllava gli strumenti. Come al solito, prima che un batiscafo s'immergesse, il ponte di poppa formicolava di marinai, tecnici e scienziati. Stone si guardò intorno, scorse Alban e gli fece un fischio.

«Dov'è il fotografo?» gli gridò. «E il tipo con la telecamera?»

«Non ne ho idea», rispose Alban mentre si avvicinava. «Il cameraman l'ho visto poco fa bighellonare da qualche parte.»

«Allora dovrebbe farmi il piacere di bighellonare da queste parti», sbuffò Stone. «Non c'immergiamo senza aver documentato tutto.»

Alban aggrottò la fronte e guardò verso il mare. La giornata era nebbiosa, con una pessima visuale. «Puzza», disse.

Stone scrollò le spalle. «È per il metano.»

«Peggiorerà.»

In effetti sul mare aleggiava un odore ripugnante. Se in superficie c'era un simile odore, voleva dire che in profondità doveva esserci moltissimo metano libero. Avevano visto tutti che cos'era successo alla scarpata continentale, avevano visto i vermi e le bolle che risalivano. Nessuno poteva o voleva farsi un'idea di come sarebbe finito quel processo, ma di certo, se tutto il mare puzzava come se fosse esploso un intero carico di bombe puzzolenti, non era un buon segnale.

«Tornerà tutto calmo», disse Stone.

Alban lo guardò. «Ascolti, Stone, al suo posto lascerei perdere.»

«Che cosa?»

«L'immersione.»

«Ah, sciocchezze! Dov'è quel maledetto fotografo?»

«È troppo rischioso.»

«Sciocchezze.»

«Inoltre il barometro sta scendendo. Precipita. Avremo tempesta.»

«La tempesta è insignificante per un batiscafo, devo spiegarle anche questo? C'immergiamo e basta.»

«Stone, lei è un idiota! Perché lo fa?»

«Perché così potremo avere un quadro più chiaro in breve tempo», lo catechizzò Stone. «Santo cielo, Jean, non sia così fifone. Nulla riuscirà a rompere quello scafo e di certo non ci riusciranno un po' di vermi. Può raggiungere chilometri di profondità…»

«A quattromila metri l'involucro collassa», lo informò Alban in tono secco. «E l'imbarcazione è certificata fino a mille.»

«Lo so anch'io, e allora? Vogliamo scendere a novecento metri, chi ha mai parlato di quattromila? Cosa può succedere?»

«Non lo so. So soltanto che il fondale sotto di noi è cambiato e che nelle colonne d'acqua c'è sempre più gas. Il sonar non riesce a localizzare la stazione e non sappiamo perché.»

«Forse c'è stato uno smottamento. O una frana. Nel peggiore dei casi, la nostra stazione è sprofondata un po'. Cose che capitano.»

«Sì. Forse.»

«Allora, qual è il problema?»

«Il problema è che un robot potrebbe fare la stessa cosa», sbottò Alban. «Ma lei vuole assolutamente giocare all'eroe.»

Stone indicò con due dita i propri occhi. «Con questi posso valutare molto meglio la situazione. Capisce? Direttamente sul luogo. Così si risolvono i problemi: si va e li si affronta.»

«Va bene. Okay.»

«Allora, quando c'immergiamo?» Stone guardò l'orologio. «Ah, tra mezz'ora. No, tra venti minuti. Fantastico.»

Fece un cenno a Eddie all'interno del batiscafo. Il pilota sollevò la mano, poi tornò a dedicarsi alla console. Stone sorrise. «Cosa vuole di più? Abbiamo il miglior pilota che ci sia in circolazione. E, in caso di necessità, quell'affare lo so guidare anch'io.»

Alban rimase in silenzio.

«Allora è tutto chiaro. Bene. Voglio guardare ancora una volta il piano d'immersione. Per qualsiasi evenienza, sono nella mia cabina. E per favore, Jean, vada a prendere quei maledetti uomini per le riprese. Li porti qui, a meno che non siano caduti in mare.»

Trondheim, Norvegia

«Dopobarba», borbottò Johanson.

Era possibile che avesse finito il dopobarba? No, impossibile. Lui era Sigur Johanson, il magazziniere delle cose belle. Vino e cosmetici non finivano così, come se niente fosse. Da qualche parte doveva avere ancora una boccetta di Kiton eau de toilette.

Impaziente tornò in bagno e rovistò nell'armadietto a specchi. Doveva uscire di casa in fretta, perché l'elicottero lo aspettava sullo spiazzo del centro di ricerca, per portarlo all'incontro con Kaxen Weaver. Ma per lui, che dava importanza al suo aspetto accuratamente trasandato, preparare la valigia era un compito ben più difficile che per qualunque altro essere umano. Una persona normale non si perdeva in astrusità come scegliere con accuratezza il colore sbagliato della giacca.

Trovò il dopobarba dietro due barattoli di gel per capelli.

Mise la boccetta nel nécessaire, che schiacciò nella borsa da viaggio tra un volume di poesie di Walt Whitman e un libro sul Porto e chiuse la cerniera. Era una borsa in stile bagaglio a mano, d'obbligo per i nobili londinesi durante i party in campagna all'inizio del XIX secolo. I passanti di pelle erano cuciti a mano e il fatto che la maniglia fosse un po' consumata trovava la piena approvazione di Johanson.

Il quinto giorno!

Aveva messo in borsa il CD? Ne aveva copiato uno coi dati che documentavano la sua straordinaria teoria della regia superiore? Forse si sarebbe presentata l'occasione di parlarne con la giornalista. Controllò ancora una volta.

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