Cominciò a sbottonare la tuta arancione. «Se almeno si potesse fare qualcosa», disse cupo.
«Fare che cosa?»
«Cercare.»
«Non volevi parlare con Rod Palm dell'interpretazione degli esami telemetrici?»
«L'ho fatto.»
«E allora?»
«Non c'è molto, a quanto pare. In gennaio hanno messo dei rilevatori di posizione a qualche leone marino e a qualche foca, tutto lì. I dati ci sono, ma le trasmissioni finiscono poco dopo l'inizio della migrazione. Silenzio radio.»
«Non preoccuparti. Arriveranno. Migliaia di balene non spariscono nel nulla.»
«A quanto pare invece è proprio così.»
Lei sorrise. «Forse sono in coda a Seattle. A Seattle c'è sempre coda.»
«Molto spiritosa.»
«Forza, rilassati! Anche i primi anni qualche volta hanno tardato. Che dici, ci vediamo stasera allo Schooners?»
«Io… no. Devo preparare l'esperimento col beluga», rispose Anawak.
Susan lo osservò, accigliata. «Se lo vuoi sapere, esageri un po' col lavoro.»
Lui scosse la testa. «Devo farlo, Susan. Per me è importante e poi non capisco nulla del corso azionario.»
La stoccata era rivolta a Roddy Walker, il ragazzo di Susan. Faceva il broker a Vancouver e avrebbe trascorso qualche giorno a Tofino. La sua idea di vacanza consisteva nel dare sui nervi agli altri, parlando ininterrottamente al cellulare o elargendo consigli finanziari, ovviamente sempre a voce altissima. Susan aveva compreso da tempo che tra i due giovani non sarebbe mai nata un'amicizia, soprattutto dopo che Walker aveva tormentato Anawak per una serata intera, interrogandolo sulle sue origini.
«Forse non ci crederai, ma Roddy sa parlare anche di altre cose», disse lei.
«Davvero?»
«Se glielo si chiede con gentilezza», disse.
Una frase un po' tagliente. «Va bene. Allora verrò più tardi», concluse lui.
«Sciocchezze. Non verrai neppure più tardi.»
Anawak sorrise. «Se me lo chiedi con gentilezza…»
Sapevano entrambi che non si sarebbe presentato, tuttavia Susan disse: «Ci troviamo verso le otto, in caso ci ripensi. Forse dovresti alzare il tuo sedere ricoperto di molluschi. C'è anche la sorella di Tom e viene per te».
La sorella di Tom non era il peggiore degli argomenti per convincerlo. Ma Tom Shoemaker era il direttore amministrativo della Davies, e ad Anawak non piaceva l'idea di stringere legami proprio quando aveva già in mente di andarsene. «Ci penserò.»
Susan sorrise, scrollò la testa e uscì.
Anawak andò avanti a servire i clienti finché non comparve Tom, che gli concesse mezza giornata di libertà. Uscì sulla strada principale di Tofino. La Davies Whaling Station si trovava proprio all'ingresso del paese. L'edificio era carino: una tipica casa di legno con frontone rosso, terrazza sul tetto e un prato sul davanti da cui, come simbolo, spuntava una coda di balena alta sette metri, fatta con legno di cedro. Nelle immediate vicinanze iniziava un bosco di abeti. Lì il Canada appariva esattamente come lo immaginavano gli europei. Ad alimentare quell'atmosfera contribuivano gli indigeni, che, di sera, alla luce delle lanterne antivento, raccontavano di orsi arrivati fin nei loro giardini e di cavalcate sul dorso delle balene. Non tutto era vero, ma la maggior parte sì. Vancouver Island nutriva con entusiasmo il mito di rappresentare l'essenza stessa del Canada. La striscia di costa occidentale tra Tofino e Port Renfrew — con le spiagge che scendevano dolcemente verso il mare, le baie singolari, circondate da abeti secolari e cedri, le paludi, i fiumi e il panorama frastagliato — attirava ogni anno frotte di visitatori. Con un po' di fortuna, era possibile vedere balene grigie, lontre e leoni marini che prendevano il sole nei pressi della costa. Per molti, quell'isola era sempre un paradiso, anche quando il mare mandava la pioggia.
Anawak non degnò il panorama di uno sguardo.
S'inoltrò nel paese e svoltò verso il molo. Lì c'era ancorata una barca a vela, un dodici metri, vecchia e cadente. Apparteneva a Davie, il direttore della stazione. Non volendo investire denaro per riportarla in mare, Davie l'aveva affittata per una cifra bassissima ad Anawak, che ne aveva fatto la sua casa. Aveva anche un appartamento a Vancouver, ma ci andava soltanto se si doveva fermare in città un po' più del solito.
Scese sottocoperta, prese un plico di appunti e tornò alla stazione. A Vancouver aveva un'auto — una Ford arrugginita -, ma, per le dimensioni dell'isola, era sufficiente prendere in prestito la vecchia Land Cruiser di Shoemaker. Salì, accese il motore e si avviò verso il Wickaninnish Inn, un hotel di lusso distante pochi chilometri, situato su una parete rocciosa a strapiombo con una splendida vista sull'oceano. Il cielo si era ulteriormente aperto e in alcuni punti s'intravedeva l'azzurro. La strada ben asfaltata costeggiava la fitta foresta. Dopo una decina di minuti, Anawak lasciò la macchina in un piccolo parcheggio e proseguì a piedi, scavalcando un gigantesco albero caduto, che stava lentamente marcendo, e imboccando un sentiero in salita, che serpeggiava nella Verde penombra. C'era odore di terra umida e l'acqua gocciolava. Dai rami degli abeti pendevano licheni e muschio. Sembrava che tutto fosse animato.
Quando raggiunse il Wickaninnish Inn, il breve distacco dalla società umana aveva già avuto il suo effetto. Dato che il cielo si era in parte rasserenato, lui poteva sedersi in tutta tranquillità sulla spiaggia, in compagnia dei suoi appunti. La luce sarebbe stata sufficiente ancora per un po'. Mentre scendeva le scale a zig-zag, di legno, che portavano dall'hotel al mare, pensò che forse si sarebbe potuto finalmente gustare una cena al Wickaninnish Inn. La cucina era di prima categoria, e l'idea di essere lì — irraggiungibile da Walker e dalle sue sciocchezze — a guardare il tramonto del sole migliorò ulteriormente il suo umore.
Circa dieci minuti dopo, sistemati su un albero caduto il laptop e i fogli, Anawak vide una figura scendere le scale e passeggiare lungo la spiaggia, vicino all'acqua blu argento. C'era bassa marea, e la sabbia illuminata dalla luce del sole calante era punteggiata dal legname portato dal mare. Quella persona sembrava non avere la minima fretta, però era evidente che, sebbene la stesse prendendo alla larga, stava puntando proprio verso l'albero di Anawak. Lui aggrottò la fronte e cercò di mostrarsi il più indaffarato possibile. Dopo un po' sentì il rumore leggero e scricchiolante dei passi che si avvicinavano e allora fissò i suoi appunti, ma ormai la concentrazione se n'era andata.
«Salve», disse una voce cupa.
Anawak sollevò lo sguardo.
Davanti a lui c'era una donna gracile, dall'aria distinta. Aveva in mano una sigaretta e gli sorrideva gentilmente. Doveva avere quasi sessant'anni. I capelli erano grigi e corti e il viso appariva abbronzato e segnato da numerose rughe. Indossava un paio di jeans e una giacca a vento scura, ed era a piedi nudi.
«Salve», replicò Anawak, in tono meno brusco di quanto avrebbe voluto. Nel momento in cui aveva alzato lo sguardo, non aveva più percepito la presenza della donna come un disturbo. I suoi occhi blu scuro scintillavano di curiosità. Da giovane doveva essere stata molto attraente, pensò lui. Ed emanava ancora un certo fascino.
«Che cosa ci fa qui?» chiese la donna.
In altre circostanze, Anawak avrebbe risposto a monosillabi e poi si sarebbe concentrato di nuovo sul lavoro. C'erano molti modi per far capire alle persone di andare al diavolo. E invece rispose: «Sto lavorando a un articolo sui beluga. E lei?»
La donna fece un tiro di sigaretta, poi si sedette sul tronco, come se lui l'avesse invitata. Anawak la osservò di profilo, notando il naso piccolo e gli zigomi alti, e si rese conto che non era una sconosciuta. L'aveva già vista da qualche parte.
«Anch'io sto lavorando a un articolo», disse la donna. «Ma temo che nessuno lo vorrà più leggere, se aspetterò ancora a pubblicarlo.» Lo guardò. «Oggi ero sulla sua barca.»