«In ogni caso, è significativo che fino agli anni '90, per il test dello specchio, siano stati usati quasi esclusivamente animali terrestri», proseguì. «Inoltre è vero che si speculava già da tempo sull'intelligenza di delfini e balene, benché fornirne la dimostrazione non suscitasse di certo l'interesse delle industrie alimentari. La carne di scimmia e la sua pelliccia interessano solo una minima parte dell'umanità. Al contrario, la caccia alle balene e ai delfini ha ben altre dimensioni e subirebbe un duro colpo se si dimostrasse l'intelligenza e la consapevolezza di sé di tali animali. Molti sono stati tutt'altro che entusiasti quando, alcuni anni fa, abbiamo iniziato i test dello specchio con le focene. Abbiamo rivestito le pareti della piscina in parte con vetri riflettenti, in parte con specchi veri e propri. Poi abbiamo segnato le focene con un pennarello nero. Ed è stato già piuttosto sorprendente notare come i nostri soggetti ispezionassero le pareti finché non trovavano gli specchi. Evidentemente avevano capito che potevano vedere meglio il segno se l'immagine riflessa era più definita. Ma siamo andati oltre: abbiamo marcato alcuni animali con un pennarello che conteneva inchiostro e altri con uno che conteneva solo acqua. Temevamo che le focene reagissero solo allo stimolo tattile; invece si fermavano a lungo a esaminarsi davanti allo specchio solo i soggetti col segno visibile.»
«Le focene ottenevano una ricompensa?» chiese uno degli studenti.
«No, e non le abbiamo neppure allenate per il test. Durante l'esperimento abbiamo addirittura segnato diverse parti del loro corpo, per evitare gli effetti dell'apprendimento e dell'abitudine. Da alcune settimane stiamo facendo lo stesso esperimento coi beluga. Abbiamo segnato sei volte i cetacei, due volte col pennarello 'finto'. Li abbiamo osservati. Ogni volta nuotavano verso lo specchio e cercavano il segno. Per due volte non l'hanno trovato e hanno interrotto subito la ricerca. A mio avviso, abbiamo ottenuto la dimostrazione che i beluga hanno lo stesso livello di autoconsapevolezza degli scimpanzé. Per alcuni aspetti, i cetacei e gli uomini possono essere considerati molto più simili di quanto pensavamo.»
Una studentessa alzò la mano. «Vuole dire…» Esitò. «I risultati vogliono dire che delfini e beluga hanno intelletto e coscienza, giusto?»
«È così.»
«Come può dimostrarlo?»
Anawak era allibito. «Non ha sentito? Non ha visto cos'è successo?»
«Certo. Ho visto che un animale ha registrato la propria immagine allo specchio, quindi è come se dicesse: 'Quello sono io'. Ciò dimostra necessariamente la coscienza di sé?»
«Si è data la risposta da sola, affermando: Quindi è come se dicesse: 'Quello sono io'. Ha coscienza di sé.»
«Non credo.» La studentessa fece un passo avanti e Anawak la osservò, aggrottando le sopracciglia. Aveva capelli rossi, un piccolo naso a punta e incisivi un po' troppo grandi. «Il vostro tentativo evidenzia attenzione consapevole e coscienza dell'identità fisica. E, a quanto pare, lo fa con successo. Ma non basta per dimostrare che questi animali possiedono una coscienza permanente dell'identità. Da esso non si possono fare speculazioni sul loro atteggiamento nei confronti degli altri esseri viventi.»
«Non ho detto questo», si difese Anawak.
«Certo. Ha difeso la tesi di Gallup secondo cui determinati animali sono in grado d'individuare se stessi rispetto agli altri…»
«Ho parlato di scimmie.»
«… Cosa che, sia detto tra parentesi, è controversa. In ogni caso, lei non ha posto nessun limite quando si è messo a parlare di focene e beluga. Oppure mi è sfuggito qualcosa?»
«In questo caso non c'è nessun limite da porre», ribatté Anawak, contrariato. «Che gli animali si riconoscano è dimostrato.»
«Alcuni esperimenti lo lasciano pensare, certo.»
«Dove vuole arrivare?»
La ragazza lo fissò, spalancando gli occhi. «Non è evidente? Lei può vedere come si comporta un beluga. Ma come fa a sapere che cosa pensa? Conosco il lavoro di Gallup. Crede di aver dimostrato che un animale può immedesimarsi in un altro. Ciò presuppone che gli animali pensino e provino sensazioni come noi. Quello che oggi ci ha mostrato è un tentativo di umanizzazione.»
Anawak era senza parole. Quella studentessa gli stava ritorcendo contro gli stessi argomenti. «Ha davvero questa impressione?» chiese.
«Lei ha detto che i cetacei potrebbero essere più simili a noi di quanto abbiamo creduto finora.»
«Lei non ha ascoltato bene, Miss…»
«Delaware. Alicia Delaware.»
«Miss Delaware.» Anawak si concentrò. «Ho detto che i cetacei e gli uomini potrebbero essere più simili di quanto pensavamo.»
«E dov'è la differenza?»
«Nel punto di vista. Non vogliamo dimostrare che la scoperta di tratti comuni rende i cetacei più simili agli uomini. La questione non è mettere l'uomo come figura ideale, ma vedere parentele sostanziali…»
«Comunque non credo che la consapevolezza di sé di un animale sia paragonabile a quella dell'uomo. Le premesse di fondo sono troppo distanti. A cominciare dal fatto che gli uomini hanno una consapevolezza permanente di sé, attraverso cui…»
«Sbagliato», la interruppe Anawak. «Anche gli uomini sviluppano una consapevolezza permanente solo a determinate condizioni. È dimostrato. Dai diciotto ai ventiquattro mesi, i bambini cominciano a riconoscere la propria immagine allo specchio. Fino a quel momento non sono in grado di riflettere sul loro 'essere se stessi'. Rispetto al cetaceo che abbiamo visto poco fa, sono ancora meno consapevoli della loro condizione intellettuale. E la smetta di fare continuamente riferimento solo a Gallup. Noi ci stiamo sforzando di comprendere gli animali. Perché non ci piova anche lei?»
«Io volevo solo…»
«Voleva? Sa che effetto farebbe al beluga se la vedesse mentre si guarda allo specchio? Lei si dipinge il viso, quindi che cosa dovrebbe pensare? Dovrebbe dedurre che lei è in grado d'identificare la persona nello specchio. Tutto il resto gli sembrerebbe un'idiozia. Però, se dovesse considerare il suo gusto in fatto di abbigliamento e make-up, il beluga arriverebbe a dubitare della sua capacità di riconoscersi allo specchio. Metterebbe addirittura in dubbio la sua condizione mentale.»
Alicia Delaware arrossì e parve intenzionata a rispondere, ma Anawak non le lasciò il tempo. «Naturalmente questi test sono solo l'inizio», disse. «Nessuno che faccia ricerche serie su delfini e balene vuole rinverdire l'ameno mito degli amici dell'uomo. Verosimilmente, delfini e balene non hanno un particolare interesse per l'uomo, soprattutto perché abitano un diverso spazio vitale, hanno altri bisogni e derivano da una linea evolutiva diversa dalla nostra. Ma se il nostro lavoro può portare a trattarli con maggiore rispetto, e quindi a proteggerli al meglio, allora ne vale la pena.»
Rispose ancora ad alcune domande e lo fece il più velocemente possibile. Alicia Delaware si tenne in disparte, con aria imbarazzata. Infine Anawak si congedò dal gruppo e attese che si allontanasse. Poi si mise a parlare con la sua équipe scientifica, fissò i successivi appuntamenti e le altre procedure. Finalmente solo, si avvicinò al bordo della piscina, respirò profondamente e si rilassò.
Il lavoro col pubblico non gli piaceva… e in futuro sarebbe stato costretto a trattare sempre più spesso con gli estranei. La sua carriera procedeva senza ostacoli, sostenuta da una fama ormai consolidata d'innovatore. Quindi, prima o poi, avrebbe dovuto litigare con tutte le Alicia Delaware di questo mondo, ragazze appena uscite dall'università e che, sempre chine sui libri, non avevano mai visto neppure un litro d'acqua marina.
Si piegò sulle ginocchia e sfiorò l'acqua fredda della piscina. Era mattina presto. Di solito, i test e le visite scientifiche avevano luogo prima dell'apertura dell'acquario o dopo la sua chiusura. Dopo settimane di pioggia, marzo faceva bella mostra di sé con una serie di giornate straordinariamente belle e il primo sole sfiorava col suo gradevole calore la pelle di Anawak.