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«Allora mio padre ha lottato per i diritti degli inuit?» chiese Anawak sottovoce.

«L'abbiamo fatto tutti. Ero giovane quando siamo stati cacciati. Ho lottato con gli altri per ottenere un risarcimento. Per trent'anni abbiamo fatto cause e combattuto. Anche tuo padre. Ma lui è crollato. Ora, dal 1999, abbiamo il nostro Stato, il Nunavut, la «nostra terra.» Nessuno s'immischia più, nessuno ci trasferisce. Ma la nostra vita, l'unica vita che era fatta per noi, è irrimediabilmente perduta.»

«Allora dovete cercarne una nuova.»

«Hai ragione. A cosa serve lamentarsi? Noi siamo sempre stati nomadi e indipendenti, ma ci siamo adattati all'idea di vivere in un territorio limitato. Fino a pochi decenni fa, non conoscevamo nessuna forma di organizzazione, tranne vaghe alleanze familiari, non tolleravamo né capi tribù né condottieri… Ora invece gli inuit dominano sugli inuit, come si addice a un'amministrazione statale moderna. Non conoscevamo la proprietà privata, ora ci avviamo sulla strada di un moderno Stato industriale. Torniamo a ravvivare le tradizioni, alcuni si comprano i cani da slitta, s'insegna nuovamente a costruire gli igloo e ad accendere il fuoco con le pietre focaie. È bello che si rinnovino quei valori, ma non possiamo fermare il tempo. E ti voglio dire, ragazzo mio, che io non sono insoddisfatto. Il mondo si muove. Oggi viviamo come nomadi in Internet, percorriamo la rete delle autostrade di dati, cacciamo e raccogliamo informazioni. I giovani chattano con persone di tutto il mondo e raccontano loro del Nunavut. In questa terra si suicida ancora tanta gente, troppa. Dobbiamo elaborare un lutto. Abbiamo bisogno di tempo. Non si può sacrificare ai morti le speranze dei vivi… Sei d'accordo?»

Anawak guardò il sole che sfiorava l'orizzonte. «Hai ragione», rispose.

Poi, seguendo un impulso, raccontò ad Akesuk tutto quello che avevano scoperto allo Château, a che cosa stava lavorando l'unità di crisi e il sospetto maturato sull'esistenza in mare di un'intelligenza sconosciuta. Gli uscì tutto così, semplicemente. Sapeva che contravveniva al ferreo divieto di Judith Li, ma non gli importava. Era stato in silenzio per una vita intera. Akesuk era tutto quello che gli restava della sua famiglia.

«Vuoi il consiglio di uno sciamano?» chiese infine lo zio.

«No. Non credo agli sciamani.»

«Certo, e chi ci crede? Ma non potete risolvere questo problema con la scienza, ragazzo mio. Uno sciamano ti direbbe che tutto ciò dipende dagli spiriti del mondo animale che vagano negli esseri viventi. I qallunaat hanno iniziato a distruggere la vita. Si sono inimicati gli spiriti, la dea del mare, Sedna. Chiunque siano quegli esseri, non otterrete nulla se cercherete di attaccarli.»

«E allora?»

«Considerateli una parte di voi. In questo pianeta apparentemente unito da una rete virtuale, ciascuno è un extraterrestre per l'altro. Prendete contatto. Come tu hai preso contatto con lo sconosciuto popolo degli inuit. Non sarebbe un bene se tutti crescessero insieme?»

«Non sono umani, Iji.»

«Non c'entra. Fanno parte di un unico mondo, come le tue mani e i tuoi piedi fanno parte di un unico corpo. Nella lotta per la supremazia non ci sono vincitori. Le battaglie generano solo vittime. A chi interessa, in fondo, quante specie ci siano sulla Terra e quanto siano intelligenti? Imparate a comprenderle invece di combatterle.»

«Sembra un precetto cristiano. Porgi l'altra guancia…»

«No», ridacchiò Akesuk. «È il consiglio di uno sciamano. Da queste parti ne abbiamo ancora, ma non lo gridiamo ai quattro venti.»

«Ma quale sciamano dovrebbe…» Anawak sollevò le sopracciglia. «Non sarai mica tu?»

Akesuk sorrise. «Qualcuno si deve pure occupare delle questioni spirituali», rispose. Poi esclamò: «Guarda!»

Un gigantesco orso polare si era avvicinato agli ultimi resti del narvalo e aveva scacciato gli uccelli, che si erano allontanati o avevano preso a zampettare sul ghiaccio, tenendosi a distanza di sicurezza. Uno stormo di uccelli, però, non si era dato per vinto e si accaniva contro l'intruso, benché questi sembrasse del tutto indifferente. Era abbastanza distante dall'accampamento perché la guardia non lanciasse l'allarme, ma l'uomo aveva sollevato il fucile e osservava con attenzione.

«Nanuq», disse Akesuk. «Sente tutti gli odori. Anche i nostri.»

Anawak osservò l'orso che stava mangiando. Non aveva paura. Dopo un po', il colosso perse ogni interesse nella sua preda e si allontanò lentamente. Si guardò intorno solo una volta, adocchiando l'accampamento, e infine sparì dietro una barriera di ghiaccio.

«Che aria affabile», sussurrò lo zio. «Ma sa correre, ragazzo mio! Eccome!» Ridacchiando, frugò nella giacca a vento e tirò fuori una statuetta che mise in grembo ad Anawak. «Ho aspettato. Tu sai che ogni regalo ha il suo tempo. Forse adesso è il momento giusto per dartelo.»

Anawak prese la scultura e la osservò. Raffigurava un volto umano con piume al posto dei capelli; inoltre la parte posteriore della testa terminava in un corpo d'uccello. «Uno spirito uccello?»

Akesuk annuì. «L'ha fatto Toonoo Sharky, un mio vicino di casa. È un artista molto stimato; le sue opere sono esposte addirittura al Museum of Modem Art. Prendila. Ti aspettano molte cose. Ne avrai bisogno, ragazzo mio. Quando sarà il momento, guiderà i tuoi pensieri nella giusta direzione.»

«Quando sarà il momento?»

«La tua coscienza volerà.» Con le mani, Akesuk formò due ali, le fece muovere e sorrise. «Ma tu sei stato via per tanto tempo e sei un po' fuori esercizio. Forse hai bisogno di un intermediario che ti confidi quello che vede lo spirito uccello.»

«Parli per enigmi.»

«È un privilegio degli sciamani.»

Un uccello volò sopra di loro.

«Un gabbiano di Ross», rise Akesuk. «Sì, tu sei proprio fortunato, Leon! Lo sapevi che ogni anno migliaia di bird watcher vengono qui da ogni parte del mondo proprio per vedere questo gabbiano? È così raro… No, non ti devi preoccupare, davvero. Gli spiriti ti hanno mandato un segnale.»

Più tardi, quando s'infilarono nei loro sacchi a pelo, Anawak rimase sveglio ancora un po'. Il sole notturno illuminava le pareti della tenda. Una volta sentì il grido della guardia: «Nanuq, nanuq!» Pensò al mare nero e profondo tutt'intorno a lui, e i suoi pensieri sembrarono scivolare sul manto di ghiaccio, verso un mondo sconosciuto. Respirando tranquillamente, galleggiò su un mare di sonno e infine giunse sull'altopiano formato da un gigantesco iceberg, nato dai ghiacciai della Groenlandia, trascinato fino alla costa orientale dell'isola Bylot, bloccato dal mare ghiacciato e infine strappato via dal vento e dalle onde e trascinato verso sud. Nel sogno, Anawak saliva un sentiero stretto e innevato fino alla cima della montagna, dove l'acqua aveva formato un lago verde smeraldo. Un mare liscio come uno specchio si stendeva a perdita d'occhio. L'iceberg si sarebbe sciolto e lui sarebbe sprofondato nel mare calmo, fino alle origini della vita, dove un mistero attendeva di essere chiarito.

E forse l'avrebbe aiutato uno sciamano.

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