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«Sapete tutti come si lavora in un laboratorio di massima sicurezza?» chiese Sue.

Roche e Rubin annuirono.

«Teoricamente», ammise Johanson.

«Non c'è problema. In condizioni normali dovremmo farle un corso, ma non abbiamo tempo. La tuta è un terzo della sua assicurazione sulla vita. È fatta con un pezzo unico di PVC. Gli altri due terzi sono prudenza e concentrazione. Aspetti, l'aiuto a indossarla.»

Johanson scivolò in una specie di panciotto che serviva per distribuire uniformemente l'aria all'interno della tuta. Poi infilò la protezione gialla e intanto ascoltava attentamente Sue.

«Non appena saremo dentro, la collegheremo a un tubo flessibile e riempiremo d'aria la tuta. L'aria viene deumidificata, temperata e fatta passare attraverso filtri di carbonio così che l'interno sia pressurizzato, accorgimento indispensabile perché l'aria vada sempre verso l'esterno. L'eccedenza passa attraverso una valvola. Se vuole può regolare l'afflusso, ma non sarà necessario. Tutto chiaro? Come si sente?»

«Comodo come in un paio di mocassini.»

Sue Oliviera sorrise. Passarono la prima paratia. Johanson sentì la voce di Sue attutita e si rese conto che adesso erano collegati per radio. «Nel laboratorio c'è una pressione bassa, — 50 pascal. Le spore non possono uscire. In caso di blackout c'è sempre il generatore d'emergenza, quindi è poco probabile che sorgano problemi. Il pavimento è di cemento sigillato e le finestre di vetro blindato. Tutta l'aria nel laboratorio è mantenuta sterile da filtri ad alta prestazione. Qui non ci sono scarichi, e l'acqua viene sterilizzata all'interno dell'edificio. Col mondo esterno comunichiamo via radio oppure via fax o computer. Tutti i congelatori, i meccanismi di apertura e chiusura sono forniti di allarme, che suona contemporaneamente nella sala di controllo, in Virologia e nella portineria. Ogni angolo è videosorvegliato.»

«È così, se qualcuno di voi cade o muore, c'è un bellissimo video ricordo per i nipoti», intervenne Vanderbilt.

Johanson vide Sue alzare gli occhi al cielo. Passarono la seconda e la terza paratia ed entrarono nel laboratorio. Le loro tute collegate ai tubi sembravano adatte a una missione su Marte. La sala era grande all'incirca trenta metri quadrati e, coi congelatori, frigoriferi e pensili bianchi alle pareti, sembrava quasi la cucina di un ristorante. Accostati a una parete c'erano contenitori d'acciaio delle dimensioni di latte d'olio, in cui erano conservate nell'azoto colture virali e altri organismi. Diversi tavoli offrivano spazio più che sufficiente per il lavoro. Tutto l'arredamento interno aveva gli spigoli arrotondati, in modo da evitare accidentali strappi delle tute. Sue indicò i tre grandi pulsanti rossi con cui si azionava l'allarme, poi condusse i colleghi a uno dei tavoli e aprì un contenitore a forma di bacinella.

Era pieno di piccoli granchi bianchi. Erano in due spanne d'acqua e sembravano privi di vita.

«Merda!» si lasciò sfuggire Rubin.

Sue prese una spatola metallica e toccò gli animali, ma nessuno si mosse. «Morti, direi.»

«È una sfortuna.» Rubin scosse la testa. «Una vera sfortuna. Non avevano detto che ci sarebbero arrivati vivi?»

«Come da ordine del generale comandante Judith Li, quando sono partiti erano vivi», disse Johanson. Si chinò in avanti e osservò attentamente i granchi. Poi batté sull'avambraccio di Sue. «Là, il secondo da sinistra. Ha appena mosso una zampa.»

Sue trasportò il granchio sul tavolo da lavoro. L'animale rimase immobile per qualche secondo, poi si mise improvvisamente a correre velocemente verso il bordo. La biologa lo riportò indietro. Il granchio si lasciò trascinare sul tavolo senza opporre resistenza, poi cercò di nuovo di scappare. Ripeterono quella procedura alcune volte, infine rimisero l'animale nella bacinella.

«Qualche opinione estemporanea?» chiese Sue.

«Dovrei esaminare l'interno», disse Roche.

Rubin si strinse nelle spalle. «Sembra comportarsi normalmente, ma quella specie non l'avevo mai vista. Forse lei, dottor Johanson?»

«No.» Johanson rimase un momento a riflettere. «Non si comporta normalmente. Dovrebbe vedere la spatola come un nemico, quindi aprire le chele e assumere un atteggiamento aggressivo. Mi pare che l'apparato motorio sia a posto, ma non quello sensoriale. È come se…»

«Qualcuno l'avesse caricato», disse Sue. «Come se fosse un giocattolo a molla.»

«Sì, un meccanismo. Cammina come un granchio, ma non si comporta come un granchio.»

«È in grado di determinare la specie?»

«Non sono un tassonomo. Posso dirvi che cosa mi ricorda. Ma dovrete considerarlo con precauzione.»

«Dica.»

«Ci sono due caratteristiche significative». Johanson prese la spatola e toccò alcuni dei corpi senza vita. «La prima è che gli animali sono bianchi, quindi senza colore. I colori non sono una decorazione, hanno una funzione. La maggior parte degli animali privi di colore non ne ha bisogno semplicemente perché nessuno li può vedere. La seconda particolarità è la completa mancanza di occhi.»

«Questo vuol dire che arrivano da caverne o da abissi privi di luce», mormorò Roche.

«Sì. Negli animali che vivono senza luce, gli occhi sono fortemente atrofizzati, ma almeno in forma rudimentale ci sono. Perlomeno si riconosce dov'erano un tempo. Questi granchi, invece… Non voglio dare giudizi precipitosi, però mi danno l'impressione di non aver mai avuto occhi. Se è così, non solo deriverebbero da un mondo completamente buio, ma avrebbero anche avuto origine da esso. Conosco solo una specie di granchi con queste caratteristiche.»

«I granchi ciechi», annuì Rubin.

«E da dove provengono?» chiese Roche.

«Dai camini idrotermali degli abissi», disse Rubin. «Oasi vulcaniche. Sembrano proprio i granchi ciechi.»

Roche aggrottò la fronte. «Ma allora sulla terra non potrebbero sopravvivere neppure un secondo.»

«La domanda è: cos'è sopravvissuto?» disse Johanson.

Sue sollevò dalla bacinella uno dei corpi senza vita, lo girò sul dorso e lo appoggiò sul tavolo da lavoro. Poi prese da un piatto una serie di attrezzi. Passò con una minuscola sega circolare a batteria lungo i fianchi della corazza e immediatamente dall'interno schizzò fuori qualcosa di trasparente, spinto da un'alta pressione. Impassibile, la biologa continuò a tagliare la corazza, sollevò la parte inferiore con le zampe e l'appoggio di fianco.

Tutti fissarono l'animale tagliato.

«Questo non è un granchio», esclamò Johanson.

«No», annuì Roche. Indicò la massa appiccicosa di gelatina vischiosa che riempiva la maggior parte della corazza. «È la stessa robaccia che abbiamo trovato negli astici.»

Servendosi di un cucchiaio, Sue mise la gelatina in un barattolo. «Guardate un po'», disse. «Proprio dietro la testa sembra che ci sia il granchio originario. Vedete le ramificazioni fibrose lungo la schiena? È il sistema nervoso. L'animale aveva ancora tutti i suoi sensi, però erano inutilizzabili.»

«E invece sì», disse Rubin. «La gelatina.»

«Quindi non è un granchio nel vero senso della parola.» Roche si chinò sul recipiente con quella sostanza viscida priva di colore. «La struttura di un granchio. Funzionante, ma non vivente.»

«Questo spiegherebbe perché non si comporta come i granchi. A meno che non identifichiamo la sostanza all'interno come una nuova specie di carne di granchio.»

«Non se ne parla neppure», sbottò Roche. «È un organismo estraneo.»

«Allora è stato questo organismo estraneo a fare in modo che il granchio arrivasse a terra», osservò Johanson. «E dobbiamo riflettere se si è infilato in animali che erano già morti e in un certo senso li ha resuscitati…»

«O se i granchi sono stati allevati così», completò Sue.

Per un po' regnò un silenzio sgradevole. Infine Roche disse: «Qualunque sia il motivo della loro presenza, una cosa è certa: se adesso ci togliessimo le tute, moriremmo in un lampo. Credo che troverete questi animaletti pieni di colture di Pfiesteria, o forse di cose ancora peggiori. In questo laboratorio è contaminata anche l'aria».

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