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Sentì le chiavi scivolarle via di mano.

No! pensò. Ti prego, non adesso!

Presa dal panico, tastava ovunque, girava su se stessa. Mio Dio, dove sono quelle maledette chiavi? Devono essere qui, da qualche parte…

Calò l'oscurità.

Lentamente, Tina sollevò la testa e vide l'ondata.

Non aveva più fretta. Ormai sapeva che era troppo tardi. Aveva vissuto in fretta, sarebbe morta in fretta. Sperava che almeno finisse velocemente. Talvolta si era chiesta come sarebbe stato morire, che cosa poteva passare per la testa quando ci si rendeva conto che non c'era più nessuna possibilità di fuga. La morte avrebbe detto: «Eccomi qui. Hai cinque secondi, pensa a qualcosa, quello che vuoi. Oggi sono generosa e, se vuoi, puoi passare in rassegna tutta la tua vita, ne avrai il tempo». Non era forse così? Mentre un'auto si schiantava, di fronte a un proiettile o nel corso di una caduta mortale… Non si diceva forse che la vita intera scorreva davanti agli occhi? Le immagini dell'infanzia, il primo amore, una sorta di Best of? Tutti dicevano che era così, quindi così doveva essere.

Ma l'unica cosa che Tina sentiva era il terrore che la morte potesse farle male, che potesse farla soffrire. Si vergognava un po' che la sua vita finisse in modo così desolante. La morte aveva mandato tutto all'aria. Era l'unica cosa che riusciva a pensare. Dentro di lei, non scorreva nessun film hollywoodiano. Non c'erano grandi pensieri. Non c'era una fine dignitosa.

Davanti ai suoi occhi, lo tsunami colpì il ristorante di Kare e lo ridusse in macerie.

La parete d'acqua raggiunse il parcheggio.

Qualche secondo dopo, sfrecciò lungo l'altura.

Lo zoccolo continentale

Mentre l'onda, allargandosi, raggiungeva la terraferma, sullo zoccolo continentale aveva già lasciato una distruzione inimmaginabile.

Una parte delle piattaforme di perforazione e delle stazioni di pompaggio, costruite direttamente sul margine continentale, era sparita negli abissi con la scarpata. Soltanto quello, nel giro di qualche minuto, era costato la vita a migliaia di persone. Ma era solo un assaggio di ciò che lo tsunami avrebbe fatto sullo zoccolo continentale. Come in un tamponamento, le masse d'acqua spinte in avanti si ammucchiarono l'una sull'altra, in un fronte verticale che cresceva sempre più, a mano a mano che il fondo si abbassava. Sotto il loro impatto, le strutture portanti delle piattaforme di produzione, costruite con un sistema di ponteggi, si spezzarono come fiammiferi. Nel giro di nemmeno quindici minuti, si rovesciarono oltre ottanta piattaforme, incapaci di reggere quel peso. Per molte di esse, il colpo fatale non venne inferto dalla parete d'acqua — le piattaforme di produzione del mare del Nord erano progettate per sopportare onde di circa quaranta metri senza subire gravi danni, cosa che statisticamente avveniva una volta ogni cento anni -, ma da un insieme di diversi fattori.

Nei normali frangenti, si misurava una pressione di dodici tonnellate per metro quadrato, sufficiente per strappare gli argini di un porto e scagliarli nel centro della città, per far vorticare in aria piccole navi e spezzare in due le petroliere e i grandi cargo. Quelli erano i danni causati da onde generate dal vento. La loro forza d'urto si misurava in modo diverso da quella delle onde di uno tsunami. Si poteva dire che, rispetto a uno tsunami delle stesse dimensioni, un frangente era roba da poco.

Già a metà dello zoccolo continentale, lo tsunami provocato dallo smottamento raggiungeva un'altezza di venti metri. Ma, nonostante l'altezza, la sua cresta sarebbe passata sotto la coperta delle piattaforme.

A essere fatale fu la violenza con cui esso colpì le strutture portanti.

Sul lungo periodo, le piattaforme petrolifere, come le navi, erano soggette al logoramento del mare. Dato che, in base alle statistiche, un'onda da quaranta metri si produceva una volta ogni secolo, i progettisti avevano costruito le piattaforme in maniera tale che potessero sopportarla. A partire da questo elemento, seguendo una logica tesa alla rassicurazione, le piattaforme erano state classificate come costruzioni in grado di reggere per cento anni. Era dunque vero che, statisticamente, potevano sopportare per un secolo l'effetto del vento e del mare, ma ciò ovviamente non significava che avrebbero potuto reggere per cento anni a onde anomale continue. Ed era assai probabile che non avrebbero retto neppure a una grande ondata, perché soltanto di rado il deterioramento era il risultato di onde mostruose. In genere, esso era la conseguenza del continuo logorio provocato da onde più piccole e dalle tempeste. In breve tempo, in ogni piattaforma si creava un tallone d'Achille, benché nessuno potesse dire con precisione dove si trovasse. In dieci anni, quei punti deboli potevano subire un logoramento che corrispondeva a quello subito da altri punti in cinquant'anni. E anche un'onda di medie dimensioni poteva rivelarsi un grave problema.

I calcoli matematici sono una brutta bestia. Le medie statistiche, su cui si basa la progettazione delle costruzioni marine, partono da affermazioni ideali e non dalla realtà. Il concetto di logoramento medio può essere valido negli uffici e nelle teste dei costruttori, ma la natura non conosce le medie e non si attiene alle statistiche. La natura è fatta di una successione incalcolabile di situazioni momentanee ed estreme. Forse, in certe acque, si possono rilevare onde alte mediamente dieci metri, ma, se s'incappa in un esemplare di trenta metri, che statisticamente non esiste, il valore medio non porta nessun aiuto. E si muore.

Lo tsunami spazzò via il paesaggio di torri d'acciaio, superando in un attimo il loro limite di logoramento. I piloni si ruppero, le saldature si spezzarono, le costruzioni sopracoperta si ribaltarono. Soprattutto nella parte inglese, dove prevalevano i ponteggi a tubi d'acciaio, la forza d'urto dell'onda distrusse quasi tutte le costruzioni o le danneggiò gravemente.

Da anni la Norvegia era specializzata nei piloni di cemento armato e lì lo tsunami trovò meno punti deboli. Tuttavia il disastro non fu meno devastante, perché le onde spararono proiettili giganteschi contro le torri di estrazione: le navi.

Teoricamente, la maggior parte delle navi non poteva reggere onde di più di venti metri d'altezza. Secondo le statistiche, gli scafi sopportavano al massimo onde di 16,5 metri. La realtà però era diversa. A metà degli anni '90, onde anomale abbattutesi sulla Scozia avevano procurato un buco grande come una casa nella petroliera Mimosa da tremila tonnellate, ma la nave se l'era cavata. Nel 2001 un frangente di trentacinque metri al largo del Sudafrica stava per affondare la nave da crociera MS Bremen, ma non c'era riuscito. Nello stesso anno, all'altezza delle Falkland, la Endeavour, una nave lunga novanta metri, era caduta vittima di un fenomeno che gli scienziati chiamavano le «tre sorelle», tre onde in sequenza con un'altezza di trenta metri. La Endeavour era stata gravemente danneggiata, ma era riuscita a trovare rifugio in porto.

In genere, però, delle navi che facevano simili incontri non si sapeva più nulla. La più subdola delle onde giganti era il cosiddetto «buco nell'oceano». Il fronte dell'onda formava una sorta di profonda voragine in cui la nave finiva di prua o di poppa. Se le onde si trovavano a una certa distanza, in genere c'era tempo sufficiente per risalire e scalare il dorso dell'onda successiva. Se erano serrate, la situazione cambiava. La nave cadeva nella voragine e l'onda seguente, troppo vicina, la inghiottiva, facendola sprofondare sotto un muro d'acqua. E se anche la nave fosse riuscita a riemergere dalla voragine, cominciando a risalire, si poteva solo sperare che l'onda non fosse troppo alta o troppo verticale. In genere, però, lo era. Allora si cercava di fare l'impossibile, cioè di risalire un piano verticale. Normalmente erano le navi più piccole a sprofondare, quelle che avevano una lunghezza inferiore all'altezza dell'onda, ma spesso neppure i giganti dell'oceano ce la facevano. Venivano rovesciate e cadevano a testa in giù.

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