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La Gata Encantada si trovava nei pressi del tronco del grande albero. Robin c’era già stata, una volta, ma l’oscurità, in quella parte di Titantown, era perpetua, e non c’erano piantine stradali. Non c’erano neppure le strade. Per trovare un posto qualsiasi, occorrevano una lanterna e una grossa dose di fortuna.

Robin pensava al centro della città come al quartiere del tempo libero. La descrizione era abbastanza giusta, anche se, come in tutto il resto di Titantown, c’erano negozi, e anche abitazioni, sparsi fra le sale di danza, i teatri e le bettole. Tra l’anello esterno e il tronco c’era una zona relativamente disabitata. Era la parte meno frequentata della città, occupata da piccoli orti che crescevano in quell’oscurità calda e umida. Gran parte della città era illuminata da grandi lampade di carta; laggiù se ne vedevano poche.

Era la zona che corrispondeva alle sue idee di un giardino pubblico. Sua madre l’aveva avvertita di tenersi lontana da essi, perché laggiù si nascondevano uomini che saltavano addosso alle donne per stuprarle. Naturalmente, gli umani che si spingevano in quella zona di Titantown erano pochi, ma nessuno impediva loro di recarsi laggiù. Lei pensava di avere superato le sue preoccupazioni a proposito dello stupro, ma non riusciva a fare a meno di pensarci. C’erano dei posti dove l’unica luce era quella della sua lanterna.

Udì un sibilo che le fece fare un sobbalzo. Si fermò a controllarne l’origine, e vide alcuni filari di piante basse e carnose che emettevano una fine nebbiolina. Chiunque fosse cresciuto nella Congrega, con le sue file di spruzzatori che attraversano tutta la concava superficie agricola, avrebbe riconosciuto immediatamente la funzione di quella nebbiolina. Respirò a pieni polmoni, sorridendo. L’odore della terra umida la riportava ai giorni dell’infanzia, a un’epoca priva di complicazioni, trascorsa a giocare nei campi di fragole mature.

La taverna era un basso edificio di legno, con la consueta larghissima doppia porta. Accanto alla porta pendeva l’insegna: due cerchi, uno sopra l’altro. In quello in alto, che era più piccolo, erano disegnate due punte in cima, gli occhi a mandorla, un sorriso pieno di denti.

Perché una gatta, si chiese, e perché spagnola? Quando i titanidi imparavano una lingua umana, si trattava invariabilmente di quella inglese, ma laggiù c’era invece la scritta in spagnolo, proprio sopra la porta: La Gata Encantada, senza le solite rune del loro alfabeto. Erano una strana razza, decise Robin. Erano assai simili agli uomini, sotto molti aspetti. Numerose delle loro capacità erano uguali a quelle umane. Gli oggetti che costruivano erano in gran parte uguali a quelli che costruivano gli uomini. Anche le loro arti erano simili a quelle umane, eccetto beninteso la loro musica trascendente. Il loro strano sistema di riproduzione era l’unica caratteristica che li distinguesse nettamente.

Be’, forse non proprio l’unica, si disse poi, entrando nella Gata, quando lo sguardo le cadde sulla vasca piena d’acqua che era un elemento standard di tutti gli edifici titanidi aperti al pubblico. Il pavimento era di sabbia, con uno strato di paglia. Tutto considerato, i titanidi avevano risolto il problema di conciliare tra loro urbanizzazione e incontinenza assai meglio di quanto non fossero riusciti a farlo, per esempio, a New York City, all’epoca del cavallo e del calesse. La città era piena di piccole creature simili ad armadilli che si nutrivano unicamente di quei mucchietti, dappertutto presenti, di grosse palle color arancione. Nelle abitazioni private il problema veniva risolto di volta in volta, quando si presentava, ricorrendo a paletta e secchiello. Ma, dove si riunivano molti titanidi, quella soluzione era impossibile. Gettavano al vento il superfluo e poi se ne dimenticavano. Ecco perché c’erano quelle vasche piene d’acqua: per pulirsi i piedi prima di ritornare a casa.

A parte quel particolare, La Gata Encantada pareva una qualsiasi taverna umana, ma con molto più spazio tra un tavolo e l’altro. C’era perfino un lungo bar di legno, completo di ringhiera poggiapiedi di ottone. Il posto era pieno di titanidi che giganteggiavano sopra di lei, ma da tempo Robin aveva smesso di preoccuparsi che le pestassero i piedi. Avrebbe avuto più paura se fosse stata in mezzo a una folla di umani.

— Ehi, ragazza umana! — Alzò gli occhi, e vide che il barista le faceva dei cenni con un braccio. Le gettò un cuscino. — I tuoi amici ti aspettano nel retro. Vuoi una birra di radici?

— Sì, grazie. — Ricordava dalla sua precedente visita che quella birra era una bevanda alcolica scura e schiumosa, prodotta con cereali fermentati e aromatizzata con radici amare. Aveva il gusto della birra a cui era abituata, ma era più alcolica. Le piaceva molto.

Il gruppo si era radunato attorno a un enorme tavolo, in un angolo lontano dalla folla: Cìrocco, Gaby, Chris, Salterio, Valiha, Cornamusa e un quarto titanide che lei non conosceva. La bevanda di Robin arrivò prima di lei, in un mostruoso boccale da cinque litri. Si sedette sul cuscino che le aveva dato il barista, e il tavolo le arrivò all’altezza del petto.

— Ci sono gatti, su Gea? — domandò.

Gaby guardò Cirocco, ed entrambe alzarono le spalle.

— Non ne ho mai visto uno — disse Gaby. — Questo posto prende il nome da una marcia. I titanidi vanno pazzi per le marce. Dicono che John Philip Sousa è il più grande compositore che sia mai vissuto.

— Non proprio — obiettò Salterio. — In dirittura d’arrivo, è spalla a spalla con Johann Sebastian Bach. — Bevve un sorso, poi vide che Robin e Chris lo guardavano con perplessità. Proseguì, per spiegare la sua affermazione.

— Parlando senza la minima ombra di critica, entrambi sono fondamentali e primitivi. Bach con la sua geometria fatta di ripetizione di forme sonore, il suo calcolo di monotonia ispirata; Sousa con i suoi guizzi di innocenza e di bravura. Il loro modo di affrontare la musica è come quello di una persona che voglia disporre i mattoni per fare uno ziggurat: Sousa con gli ottoni, e Bach con gli archi. Tutti gli umani lo fanno in grado più o meno alto. Anche la vostra musica scritta assomiglia a un muro di mattoni.

— L’idea — aggiunse Valiha — non ci era mai venuta in mente. Eseguire un canto e poi conservarlo, per poi eseguirlo esattamente identico, era un’idea sostanzialmente nuova. La musica di Bach e di Sousa è molto aggraziata, priva di complicazioni inutili, quando è scritta su carta. È una musica iper-umana.

Cirocco continuò a guardare alternativamente i due titanidi, con aria un po’ impacciata, poi cercò con lo sguardo Robin e Chris. Ebbe qualche difficoltà a rintracciarli.

— Con questo, ne sai quanto prima — disse. — Quanto a me, Sousa non mi è mai piaciuto. Bach mi è indifferente. — Batté gli occhi, facendo correre lo sguardo da uno all’altro come se si aspettasse di venire contraddetta. Visto che nessuno lo faceva, bevve una lunga sorsata dal suo bicchiere di birra, rovesciandosene buona parte sul vestito.

Gaby le posò una mano sulla spalla. — Presto ti chiuderanno il bar, Capitano — disse, in tono scherzoso.

— Chi ha detto che sono ubriaca? — ruggì Cirocco. Un’onda schiumosa, color oro bruno, corse sul tavolo: il suo bicchiere si era rovesciato. Per un momento, nella sala non si udì il minimo rumore, poi riprese il chiasso di prima perché i titanidi fecero finta di non accorgersi dell’incidente. Giunse qualcuno con uno strofinaccio per asciugare la birra caduta, e subito, davanti a Cirocco, venne messo un altro bicchiere.

— Nessuno lo ha detto — disse Gaby, con voce molto calma.

Cirocco parve avere dimenticato l’incidente.

— Robin, mi pare che tu e Oboe non vi conosciate ancora. Oboe (Trio Mixolidio Diesis) Bolero, ti presento Robin dalle Nove Dita, della Congrega. Robin, ti presento Oboe. Appartiene a un ottimo accordo, e ti terrà calda quando soffierà il vento freddo.

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