«Datemi uno sturalavandini grande come la cupola di San Pietro e un punto d’appoggio» aveva detto un tempo a qualcuno che si era fermato a guardare i suoi lavori «e io vi sturerò il mondo». Non disponendo però di una ventosa così grande, era costretta a ricorrere a metodi altrettanto massicci, ma un po’ più tortuosi.
Il suo punto di osservazione si trovava a circa metà altezza, sulla parete nord del canyon occidentale di Rea. Un tempo quel canyon aveva una caratteristica assolutamente unica: invece di scorrere dal canyon alle pianure situate a ovest, il fiume Ofione vi scorreva in senso inverso. Era Aglaia a rendere possibile questa incongruenza. Ora che la valvola di aspirazione del grande fiume era fuori uso, il buon senso si prendeva la rivincita sui capricci della Gea-grafia. L’acqua, che non aveva più un posto dove riversarsi, aveva trasformato Ofione in un lago azzurro e trasparente che riempiva il canyon e tracimava nelle pianure di Iperione. Per molti chilometri, lungo l’orizzonte in salita di Gea, una placida coltre d’acqua copriva ogni cosa, e lasciava spuntare solo la cima degli alberi più alti.
Aglaia aveva la forma di un enorme grappolo, lungo tre chilometri, annidato nel collo di bottiglia del canyon: la sua parte più bassa era immersa nel lago, e quella più alta raggiungeva il plateau, settecento metri al di sopra. Lei e le sue sorelle, Talia ed Eufrosine, erano organismi unicellulari con un cervello grosso come il pugno di un bambino. Per tre milioni di anni, incuranti di tutto, avevano continuato a sollevare le acque di Ofione al di sopra dell’altopiano occidentale di Rea. Si nutrivano filtrando i detriti che il fiume portava nelle loro bocche smisurate, ed erano abbastanza grandi da inghiottire qualsiasi oggetto esistente sulla superficie di Gea, tranne appunto gli alberi titanici, i quali, facendo parte della carne viva di Gea, non si sradicavano mai dalla loro sede.
Ma ormai la vita di Gea era sulla soglia del crepuscolo, e poteva succedere di tutto. E questo, rifletté Gaby, era il motivo che portava un essere della dimensione di Gea ad avere bisogno di un riparatore della dimensione di Gaby Plauget.
Intanto, la fase di aspirazione era terminata. Aglaia si era gonfiata fino a raggiungere la sua dimensione massima. Adesso, c’era un intervallo di qualche minuto, prima che la valvola cominciasse a chiudersi, come se Aglaia trattenesse il fiato in attesa della sua regolare scarica oraria. Nel crepuscolo dorato discese il silenzio, e molti occhi si volsero verso Gaby, in attesa del suo ordine.
Gaby posò a terra un ginocchio e si sporse a osservare la scena. Pareva che tutto fosse pronto. Aveva avuto molte esitazioni, prima di decidere il preciso momento in cui fare il tentativo. Un motivo a sfavore era che, nella fase sistolica, la valvola contratta serrava l’albero più strettamente che mai. Uno a favore era invece che, tra poco, l’acqua inghiottita da Aglaia sarebbe stata sottoposta a una fortissima pressione, e avrebbe esercitato una grande forza che avrebbe aiutato a spingere via l’ostruzione. Non era un’operazione da compiere con delicatezza, e il piano di Gaby si basava su due elementi: primo, assestare all’albero uno strattone quanto più robusto possibile, e, secondo, sperare per il meglio.
La sua squadra era in attesa del segnale. Si alzò in piedi, agitò al di sopra della testa una bandierina rossa, e poi la abbassò di scatto.
Dalle due pareti del canyon giunsero i robusti squilli di corno dei titanidi. Gaby voltò la schiena al canyon e risalì i dieci metri di parete che stavano dietro di lei. Poi montò in groppa a Salterio, il suo caposquadra titanide. Salterio si infilò nella tasca il corno di ottone e si lanciò al galoppo, lungo i tornanti del sentiero in discesa, per raggiungere la stazione radio. Gaby era ritta sulla sua groppa: posava sul garrese i piedi nudi e si teneva alle spalle del titanide con le mani. La posizione era più sicura di quanto non potesse parere, e questo grazie all’abitudine dei titanidi di correre sporgendo in avanti il torso e tenendo le braccia tese all’indietro, come fanno i bambini quando imitano gli aeroplani in picchiata. Se fosse scivolata, si sarebbe potuta afferrare alle braccia, ma non le era più capitato da anni.
Giunsero alla stazione quando iniziava il riflusso della sistole. L’acqua era ancora dieci metri al di sotto della loro altezza, e la valvola bloccata era mezzo chilometro più in là, verso il collo del canyon, ma quando il torrente dell’acqua che usciva dalla valvola imperfettamente chiusa cominciò a increspare la superficie del nuovo lago, e il livello dell’acqua prese lentamente a salire, i titanidi cominciarono a fremere per l’inquietudine.
Il rumore saliva di volume, e questa volta si notava in esso una sfumatura che in precedenza non c’era. Sulla cima del plateau di Aglaia, nel punto denominato delle Nebbie Basse, dove di solito usciva dalla valvola di scarico uno schizzo d’acqua che s’innalzava nell’aria per un centinaio di metri, veniva fuori soltanto del gas. La valvola rimasta all’asciutto emetteva un suono che Gaby etichettò subito «Flatulenze in chiave di basso».
— Gea — mormorò tra sé. — La dea delle scorregge.
— Cosa hai detto? — chiese Salterio, parlando nel linguaggio cantato dei titanidi.
— Niente. Mondoro, sei collegata con la bomba?
La titanide responsabile della persuasione eterica si voltò verso di lei e annuì.
— Dico di farla scoppiare, mia direttrice? — cantò Mondoro.
— Aspetta. E non chiamarmi così. Chiamami «capo». — Gaby studiò la superficie dell’acqua, fissando il punto da cui emergevano tre cavi. Fece correre lo sguardo lungo di essi, alla ricerca di qualche nodo che poteva portare a una rottura, e infine osservò anche la sua flotta improvvisata, sospesa sopra di loro. Dopo tutti quegli anni, era uno spettacolo che le incuteva ancora un timore reverenziale.
Erano i tre aerostati più grandi che fosse riuscita a radunare con un preavviso di pochi giorni. Si chiamavano Corazzata, Bombasto ed Esploratore. Ciascuno di loro era lungo più di mille metri, e ciascuno di loro era un vecchio amico di Gaby. Era difficile che gli aerostati più grandi volassero insieme in squadra, perché preferivano farsi accompagnare nei loro viaggi da un gruppetto di sette o otto esemplari più piccoli.
Ma adesso erano imbracati a quei cavi, e formavano un tiro a tre, quale raramente si poteva vedere su Gea. Le loro traslucide superfici caudali, grandi come un buon campo da football, battevano l’aria con pachidermica maestà. I loro corpi elissoidali, azzurri con riflessi di madreperla, sobbalzavano, scivolavano e stridevano l’uno sull’altro, scontrandosi come un gruppo di palloncini del luna park.
Mondoro sollevò il pollice.
— Fuoco — disse Gaby.
Mondoro si curvò verso un grosso seme, delle dimensioni di un melone, sistemato in mezzo a un intrico di rami e viticci che teneva tra le ginocchia. Gli parlò a bassa voce, e Gaby si volse a guardare Aglaia, impaziente.
Dopo qualche istante, Mondoro tossicchiò come per scusarsi, e Gaby la guardò aggrottando la fronte.
— È offeso con noi perché l’abbiamo tenuto al buio — cantò Mondoro.
Gaby sospirò a denti stretti e batté il piede per terra, rimpiangendo di non avere un normale trasmettitore.
— Allora, cantagli qualcosa sulla luce — disse Gaby. — Sei tu la specialista in persuasione. Dovresti sapere tu, come trattare quelle creature.
— Forse, con un inno al fuoco… — rifletté la titanide.
— Non me ne frega niente di quello che gli canti! — gridò Gaby, questa volta in inglese. — Fammi solo scoppiare quella maledetta roba! — E si voltò dall’altra parte, con un diavolo per capello.
La bomba era legata al tronco dell’albero titanico. Era stata collocata laggiù, con grave rischio, da angeli che erano volati nella pompa durante la fase diastolica, quando c’era aria al di sopra del torrente d’acqua che si precipitava all’interno della valvola. Gaby rimpianse di non aver potuto dare agli angeli una carica al plastico residuato dell’esercito. La «bomba» collocata dagli angeli era invece un grande pasticcio di frutti e piante di Gea. L’esplosivo era un mazzo di nitrotuberi sensibili come nitroglicerina. Il detonatore era costituito da varie parti: una pianta che emetteva scariche elettriche, e una seconda con un nocciolo di magnesio, il tutto collegato a un circuito di comando ottenuto prendendo una foglia a circuito integrato e grattando via, delicatamente, tutta la materia organica per mettere a nudo la piastrina di silicio interna, con i suoi microcircuiti. Il circuito era programmato per reagire agli impulsi di un seme radiofonico, la pianta più capricciosa di Gea. Erano trasmettitori radio che trasmettevano il messaggio soltanto se era cantato bene e se, a loro insindacabile giudizio, il messaggio da trasmettere era sufficientemente importante.