Continuava a passare dal fatalismo alla paura. Sapere di non poter fare niente non le era sufficiente. Voleva vivere, non voleva morire, e non c’erano parole per esprimere un dolore così grande.
Nella sua religione, non si credeva che le preghiere potessero avere risposta. In questo senso, la Congrega non pregava affatto. Non chiedeva niente. C’erano alcune cose che si potevano chiedere, certe posizioni che si potevano guadagnare nell’altra vita, ma quando ci si trovava in qualche momento difficile, si restava abbandonati a se stessi. La Grande Madre non interveniva a cambiare il destino individuale, e a Robin non venne neppure in mente di chiederglielo. Ma continuò a chiedersi se c’era qualcuno a cui rivolgersi per chiedere aiuto, qualche potere in quel deserto. E poi si domandò se non era proprio quella, l’intenzione di Gea. Che fosse rimasta a spiarla per tutta la discesa, fino a quel momento, a pochi attimi dalla distruzione? Dopo la prima scossa emotiva, Robin non si era più sorpresa di essere stata trattata in quel modo da Gea. Sembrava armonizzarsi perfettamente con tutte le follie che la «dea» le aveva detto. Ma ora che se ne chiedeva il motivo, l’unico che riusciva a trovare era che Gea voleva costringerla, con il terrore, a proclamarla sua Signora.
Se così era, allora Gea era ancora in grado di fare qualcosa. Robin aprì la bocca, ma non riuscì a emettere alcun suono. Provò di nuovo, ed emise un urlo. Per qualche strana alchimia spirituale, la sua paura si era trasformata in una rabbia divorante, che la faceva tremare più del vento.
— Mai! — gridò. — Mai! Mai! Cancro puzzolente! Abominio! Schifosa, repellente pervertita! Verrò a cercarti nella tomba, e ti squarcerò la pancia, per poi strangolarti con le tue budella puzzolenti! Ti riempirò la pancia di carboni accesi, ti strapperò la lingua, ti infilerò in uno spiedo e ti farò arrostire per l’eternità! Ti maledico! Ora ascoltami, o Grande Madre, e ricorda la mia promessa! Voto la mia ombra a dare eterni tormenti a colei che si chiama Gea!
— Ottima idea.
— E ho solo cominciato! Io…
Guardò in direzione dei suoi piedi. Un metro più in là, c’era una faccia che sogghignava. Non riuscì a vedere molto di più, a causa della posizione in cui si trovava: solo le spalle, il petto straordinariamente largo, e le ali ripiegate sulla schiena.
— Vedo che la prendi con filosofia.
— C’è qualche motivo per cui dovrei agire diversamente? — domandò Robin. — Mi pareva di avere capito tutto, e finora non ho nessuna prova di essermi sbagliata. Sei disposto a giurare, su quello che hai di più caro, che non è stata Gea a mandarti?
— Lo giuro sullo Stormo. Gea sapeva di non gettarti verso morte sicura, ma questo non è opera sua. Io lo faccio senza che nessuno me lo ordini, di mia libera iniziativa.
— Colpirò la parete tra circa cinque minuti.
— Sbagliato. I raggi si allargano come una campana, verso il fondo, ricordi? La larghezza è sufficiente a farti uscire dal raggio e a cadere sull’Iperione orientale, con un angolo di sessanta gradi.
— Se credi di consolarmi… — Ma quelle parole la tranquillizzarono un poco. La sua prima valutazione, sessantotto minuti, pareva dunque giusta, ma la velocità di impatto del suo ultimo calcolo era troppo bassa: la caduta era più lunga di quanto previsto. Si chiese come contasse di aiutarla, l’angelo, a perdere velocità.
— Non posso trasportarti — disse infatti lui. — Ti dirò una cosa: tu mi sorprendi. Finora, ho visto la gente reagire in tutte le maniere. In genere, tutti cercano di insegnarmi cosa devo fare, quando hanno ancora il lume della ragione.
— Io ce l’ho ancora. Come possiamo farcela? Anche il fattore tempo mi sembra importante.
— No, non ancora. Potrò aiutarti quando sarai più vicina al terreno, e ti aiuterò rallentando la tua velocità. Fino a quel momento, rilassati. Ma vedo che non ho bisogno di dirtelo.
Robin non sapeva cosa dirgli. Era quasi isterica, e sentiva avvicinarsi la crisi. L’unico modo per vincerla, si era accorta da tempo, era quello di fingere di essere perfettamente tranquilla. Se riesci a fingerlo abbastanza bene da ingannare un’altra persona, può darsi che tu riesca anche a ingannare te stessa.
Adesso, l’angelo era venuto a mettersi davanti a lei. Osservandolo, Robin notò due cose: primo, che era una delle poche persone da lei viste, forse cinque in tutta la sua vita, che erano più piccole di lei, e, secondo, che lei non aveva nessuna particolare ragione per ritenere che fosse maschio. Si domandò perché lo avesse pensato. L’angelo non aveva organi genitali esterni: tra le sue gambe, si vedeva solo un mucchietto di piume verdi iridescenti. Doveva essere stato a causa della sua magrezza. Nel breve tempo da lei passato su Gea, aveva imparato ad associare la magrezza, la spigolosità, ai maschi. Pareva fatto di corda e di ossa, coperte in pari proporzioni di pelle bruna nuda e di piume multicolori.
— Sei ancora un bambino? — gli chiese.
— Io no. E tu? — Sorrise. — Finalmente, vedo che ti comporti come mi aspettavo. E la prossima domanda sarà se sono maschio o femmina. Sono estremamente maschile, e orgoglioso della malattia. Dico «malattia» perché i maschi, tra gli angeli, hanno una durata di vita che è metà di quella delle femmine, sono più piccoli e hanno meno resistenza. Ma ci sono anche dei lati positivi. Non hai mai fatto l’amore in aria?
— Non ho mai fatto l’amore da nessuna parte, almeno nel senso a cui probabilmente ti riferisci.
— E desideri provare? Abbiamo circa un quarto d’ora, e ti garantisco un’esperienza indimenticabile. Ti va l’idea?
— No. Non capisco perché la cosa ti interessi tanto.
— Sono un depravato — confessò lui, tutto soddisfatto. — Ho questa passione per la ciccia. Non me ne sazierei mai. Me ne sto sempre di sentinella da queste parti, aspettando che qualche bella cicciona umana mi passi davanti. Io faccio un favore a lei, e lei fa un favore a me. Siamo contenti in due.
— Cos’è, una specie di pedaggio?
— No, non un pedaggio. Io ti salverò in qualsiasi caso. Non mi piace vedere la gente spiaccicata per terra. Ma cosa mi dici? Non è una grande richiesta. Quasi tutte sono state ben liete di farmi il piacere.
— Non io.
— Sei davvero strana, non te l’ho detto? Non ho mai visto un’umana con dei disegni come i tuoi. Sono macchie di nascita? O appartieni a qualche strana sottorazza dell’umanità? Non capisco perché non vuoi fare l’amore con me. Non ci vuole molto tempo. Mi basta un minuto. Chiedo troppo?
— Chiedi troppe domande.
— Vorrei solamente… ehi! È quasi ora di voltarsi, se non vogliamo sfracellarci. Attenta!
Robin si era voltata di scatto, in preda al panico, immaginando che la terra fosse già sotto di loro. Prese male il vento, di spalla, e cominciò a capitombolare.
— Rilassati — consigliò l’angelo. — E vedrai che ti raddrizzerai. Ecco, così va bene. Adesso, guarda se riesci a girare su te stessa. Tieni le braccia lungo i fianchi, e spostale pian piano all’indietro.
Robin fece come le diceva l’angelo, e infine si trovò in una posizione che ricordava il tuffo del cigno. Ora stavano attraversando la zona crepuscolare, e la loro quota era abbastanza bassa, tanto che si cominciava a scorgere il movimento del terreno. L’angelo le si mise alle spalle, e la strinse tra le braccia. Erano dure e robuste come corde: con una le serrò il petto, con l’altra i fianchi. Robin sentì premere contro il dorso del collo le piume che crescevano sulle guance dell’angelo; poi il calore delle sue labbra che le sfioravano il lobo dell’orecchio. . — Sei così morbida, così incantevole da stringere…
— Per la Grande Madre, se vuoi stuprarmi, fallo subito, e che tu sia maledetto, pavonaccio bugiardo! Non abbiamo molto tempo. — Robin rabbrividiva; la paura di cadere e una punta di nausea stavano velocemente demolendo il suo autocontrollo.
— Cos’hai nella borsa? — domandò lui, allegramente.