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— A cosa servono? Non si riesce neppure a vederli.

— Oh — gli assicurò lei — Gea non ha bisogno di luce visibile. Uno dei miei bis-bisnonni ci ha lavorato. L’ho visto, a Washington.

— Non mi sembra di conoscerlo.

— Certo, adesso è a pezzi. Lo vogliono demolire.

— È per questo che siete venuta qui? Per studiare la grande architettura del passato?

Lei sorrise. — No, per costruirla. Sulla Terra, dove potete ancora fare questo genere di lavoro? Per costruire questi edifici, hanno lavorato per centinaia di anni. Anche qui, ne occorrono venti o trenta, e non ci sono di mezzo i sindacati, i regolamenti edilizi e le preoccupazioni economiche. Sulla Terra, costruivamo complessi ancora più grandi, ma se non li costruivamo in sei mesi, chiamavano un’altra persona. E alla fine della costruzione, l’edificio sembrava un mucchio di sterco caduto dal cielo. Qui, invece, lavoro sul Tabernacolo Mormone dello Zimbabwe.

— Sì, ma a cosa serve? Cosa vuol dire?

Lei lo fissò con commiserazione. — Se dovete fare questa domanda, vuol dire che non sareste in grado di capire la risposta.

Raggiunsero un’area di luce diffusa. Era impossibile capire da dove provenisse l’illuminazione, ma per la prima volta si riusciva a scorgere il «tetto» del mozzo, che aveva un raggio di curvatura molto più piccolo di quello della periferia, ma che distava da loro più di venti chilometri. Pareva un complicato cestino di vimini, e ogni «vimine» era un refolo di cavo, lungo un chilometro. Alla parete più vicina a loro era appesa una tela bianca, grande come la vela maestra di un brigantino. Stavano proiettando un film, che, oltre ad avere solo due dimensioni, era anche muto e in bianco e nero. Una pianola automatica posta accanto alla cabina di proiezione, forniva l’accompagnamento musicale.

Tra la cabina e lo schermo si stendeva un tappeto persiano che pareva misurare almeno un ettaro. Su cuscini e sofà erano sdraiati cinquanta-sessanta tra uomini e donne, che indossavano abiti larghi, sgargianti. Parte guardava il film, parte parlava, rideva, beveva. Una di quelle persone era Gea.

Non faceva molto onore alle sue fotografie.

Non esistevamo molte fotografie del particolare «strumento» che Gea amava presentare come se stessa. Nelle foto, la statura rimaneva indeterminata. Un conto era leggere che Gea era una donna di bassa statura, un altro vedersela davanti. Nessuno l’avrebbe notata, se l’avesse vista seduta su una panchina. Chris ne aveva viste migliaia, come lei, nelle periferie della Terra: piccole, sgraziate raccoglitrici di rottami.

La faccia dalle guance cascanti ricordava soprattutto una patata. Occhi scuri e lucidi, sopracciglia folte, pieghe di grasso. I capelli erano ricci, con venature grigie, e tagliati all’altezza delle spalle. Sulla Terra, Chris si era procurato una foto di Charles Laughton per vedere se gli assomigliava, come dicevano i suoi libri, e aveva constatato che i libri avevano ragione.

Gea rise con aria sardonica.

— So quello che pensi, figliolo. Faccio meno impressione di un maledettissimo cespuglio che brucia senza bruciare, vero? D’altronde, cosa credi che avesse in mente, Geova, quando è così comparso? Mettere una fifa boia a un superstizioso capraio ebreo, ecco cosa aveva in mente. Accomodati, figliolo. Prendi un cuscino, e raccontami tutto.

Era straordinariamente facile parlare con Gea. Ecco il lato positivo di quella scelta così poco ortodossa del suo Aspetto Divino: in un certo modo difficile da definire, andava d’accordo con l’immagine di Gea come Madre Terra. Davanti a lei, ci si poteva sentire tranquilli. Si poteva prendere quello che si aveva dentro, metterlo a nudo, con una fiducia che diventava sempre più grande. E Gea aveva quell’intuito che dovrebbero avere tutti i buoni terapeuti e tutti i buoni genitori. Ti ascoltava, certo, ma soprattutto ti faceva capire di averti ascoltato. Non ti dava necessariamente ragione, e il suo affetto non era privo di critiche. Chris non si sentiva particolarmente favorito, e non gli pareva neppure che il suo caso le importasse molto. Ma Gea si interessava di lui e del suo problema.

Si chiese se era solo una sensazione soggettiva, se proiettava su quella donnetta grassa tutte le sue speranze. Comunque, mentre faceva il suo racconto gli scappò anche qualche lacrima, e non sentì il bisogno di scusarsene.

Raramente alzò gli occhi su di lei. Fece correre lo sguardo dappertutto, su una faccia, su un bicchiere, un tappeto, senza fissare niente in particolare.

Infine, terminò il discorso che si era preparato. Su quel che poteva succedere da quel momento in poi, non c’erano testimonianze attendibili. La gente che era ritornata sulla Terra, guarita, si manteneva stranamente sul vago, quando si trattava di parlare dei colloqui con Gea e dei sei mesi che, in media, aveva passato al suo interno dopo i colloqui. Non ne parlava mai, nonostante le pressioni.

Gea guardò per qualche tempo lo schermo, bevve qualche sorso da un calice dal gambo lunghissimo.

— Perfetto — disse. — È pressappoco quello che mi ha detto Dulcinea. Ti ho visitato attentamente, so che cosa hai, e ti assicuro che è possibile una cura. Non soltanto per te, naturalmente, ma anche per…

— Scusatemi, ma come mi avete visitato?

— Non interrompere. Torniamo al nostro accordo. È uno scambio, e probabilmente non ti piacerà quello che ti chiederò. Dulcinea ti ha fatto una domanda, quando eravate ancora all’ambasciata, e tu non hai risposto. Mi chiedo se ci hai pensato sopra, dopo di allora, e se adesso sapresti rispondere.

Chris cercò di ricordare, e alla fine gli tornò in mente la domanda sui due bambini legati sul binario.

— Non significa molto — disse Gea, magnanima — ma è interessante. Ci sono due risposte, a quanto vedo. Una è per gli dèi, e l’altra per gli uomini. Non ci hai mai pensato?

— Sì, una volta.

— E qual è la tua opinione?

Con un sospiro, Chris decise di parlare onestamente. — Pare probabile che… cercando di liberarli tutti e due, morirei nel tentativo di liberare il secondo. Non so quale libererei per primo. Ma se cercassi di liberarne uno, poi dovrei cercare di liberare anche il secondo.

— E moriresti — concluse Gea, con un cenno d’assenso. — Questa è la risposta degli uomini. Voi uomini lo fate sempre. Salite su un ramo per salvare uno della vostra razza, e il ramo si spezza sotto il vostro peso. Dieci soccorritori muoiono per salvare un escursionista che si è perduto. Un concetto sbagliatissimo dell’aritmetica. Ma, naturalmente, questo non vale per tutti. Molti umani se ne starebbero lì fermi, a guardare, mentre il treno uccide tutt’e due i bambini. — Lo fissò, socchiudendo le palpebre. — Cosa faresti, tu?

— Non so. Onestamente, non so se sarei disposto a sacrificarmi.

— Per un dio, la risposta è facile. Un dio li lascerebbe morire entrambi. In altre parole, le vite individuali non hanno importanza. Anche se so di ogni passerotto che cade, non faccio niente per evitare la sua caduta. È nella natura della vita che le creature muoiano. Non mi aspetto che la cosa ti piaccia, o che tu la capisca, o che tu sia d’accordo. Te lo dico unicamente per chiarire la mia posizione. Capisci?

— Credo. Ma non ne sono certo.

Gea scosse la mano, come per lasciar perdere la questione. — La tua approvazione non ha importanza. È solo per informarti di come funziona il mio universo.

— L’ho capito.

— Benissimo. Comunque, io non sono impersonale fino a quel punto. Di solito, gli dèi non lo sono. Se ci fosse una vita dopo di questa… e, detto per inciso, non c’è, né nella mia teologia, né nella tua… probabilmente finirei per premiare il tizio che si è lanciato sul binario ed è perito nel generoso tentativo di salvare entrambi i bambini. Quel poveraccio me lo porterei in paradiso, se il paradiso ci fosse. Purtroppo — allargò le braccia, scuotendo la testa — questo è la cosa più prossima al paradiso che ci possa essere, qui dove siamo noi adesso. Non gli faccio tanta réclame, e non pretendo complimenti per averlo costruito; è un posto, come tanti altri. Si mangia bene. — S’interruppe per un istante, e poi concluse: — Ma se devo ammirare qualcuno per un’azione che ha fatto, io lo premio in questa vita. Mi segui?

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