Dern annuì. Attraversò la sala, raccolse il cavo di fibra ottica e diede uno strattone. Adikor tornò a guardare lo schermo. Il Gliksin più vicino — un esemplare dalla pelle bruna, all'apparenza un maschio — fissò allibito il robot che filava via verso l'alto.
Dern tirò ancora il cavo; il Gliksin bruno adesso si era voltato, evidentemente in cerca di qualcun altro. Urlò qualcosa, poi annuì rispondendo a qualcuno che gli aveva gridato qualcosa di rimando. Afferrò la base del robot, che dondolava nel vuoto ad altezza d'uomo.
Un aitro Gliksin entrò nel campo visivo della telecamera. Era un esemplare più basso, dalla pelle chiara quanto quella di Adikor, con occhi… strani: scuri, seminascosti da palpebre troppo sporgenti.
I due si guardarono; il nuovo venuto scuoteva la testa vigorosamente, ma non rivolto verso il compagno. Guardava dritto nelle lenti di vetro del robot, agitando le braccia, le mani protese a palmi in giù, spingendole avanti e indietro davanti al torace. E continuava a gridare una sola parola: «Aspetta! Aspetta! Aspetta!»
Era chiaro, rifletté Adikor, che anche loro volevano un oggetto che provasse la straordinarietà dell'evento: avrebbero fatto di tutto per non farsi sfuggire il robot. Si voltò di scatto verso Dern urlando: «Tiralo su!»
Mary Vaughan raggiunse Ponter all'estremità dell'edificio dove erano gli ascensori, poco oltre lo spogliatoio dei minatori. Il Neandertal aspettava davanti alla porta chiusa; la cabina poteva trovarsi ovunque. anche a duemiladuecentocinquanta metri al di sotto della superficie. Aveva convinto l'operatore a portarla a quel piano, ma sarebbero comunque passati diversi minuti.
Nessuno dei due aveva alcuna autorità lì nella miniera, dove erano affissi ovunque cartelli con le regole per la sicurezza. La Inco disponeva di un'invidiabile massa documentaria per quanto concerneva la prevenzione degli incidenti. Ponter aveva già indossato gli stivali d'ordinanza e il casco di protezione, cosa che fece anche Mary. Gli si mise accanto, notando il piede che batteva a terra con impazienza.
Finalmente la cabina giunse al piano, vuota. Entrarono, l'operatore suonò cinque volte il segnalatore acustico: discesa senza fermate intermedie. Sobbalzando, la cabina cominciò finalmente a scendere.
Lì dentro non c'era modo di comunicare con l'esterno, a eccezione di un pulsante che avrebbe segnalato all'operatore eventuali problemi. Durante la folle corsa, Mary aveva parlato pochissimo, in parte perché concentrata alla guida, ma anche perché il cuore correva almeno quanto l'automobile.
Ma adesso…
Aveva a disposizione il tempo che l'ascensore avrebbe impiegato a percorrere due chilometri. Naturalmente, appena si fossero aperte le porte Ponter sarebbe schizzato via, né poteva biasimarlo. Non c'era tempo da perdere, e l'ascensore distava ottocento metri dalla caverna.
Piano dopo piano, Mary vedeva le luci comparire e svanire: uno spettacolo certo affascinante, ma…
Doveva fare in fretta: con ogni probabilità quella era l'ultima possibilità che aveva di parlargli. Se sotto un certo aspetto la discesa sembrava non avesse mai fine, sotto un altro ci sarebbero voluti ore, giorni, forse persino anni per comunicargli tutto quello che sentiva.
Non sapeva da dove cominciare, ma era sicura che se non avesse parlato, se non gli avesse spiegato, non se lo sarebbe mai perdonata. Anche se, a pensarci, non è che Ponter stesse per scomparire in un passato irrecuperabile; dopo tutto stava solo andando dall'altra parte: le dimensioni temporali delle due versioni della Terra erano le stesse. Domani sarebbe stato domani per entrambi, e così il decimo anniversario del loro incontro, anche se i Neandertal avevano un sistema diverso per misurare il tempo. Era comunque sicura che anche lui un giorno avrebbe riflettuto, cercando di dare un senso al coacervo di emozioni provate insieme a lei, si sarebbe stupito e avrebbe provato un velo di tristezza per quello che sarebbe potuto essere e non era stato.
Infine si decise: «Ponter.» Aveva parlato piano: il clangore dell'ascensore gli aveva forse impedito di sentire. Aveva lo sguardo perso oltre la porta della cabina, sulle rocce scure che scorrevano loro davanti mentre affondavano nelle viscere della terra.
«Ponter» chiamò ancora, più forte.
Si voltò a guardarla, inarcando il lungo sopracciglio. Gli sorrise. Si era abituata a quell'espressione eccentrica, che sulle prime la sconcertava. Avevano molte più cose in comune di quante fossero le differenze.
Eppure, ancora adesso, sin dall'inizio e per tutto il tempo che avevano trascorso insieme, c'era stato come un abisso tra loro, causato non tanto dall'appartenere a due specie diverse, quanto più semplicemente dal sesso. E non era soltanto per questo: lui non era genericamente maschio, ma era incredibilmente maschio: muscoloso come Arnold Schwarzenegger, pelosissimo, insieme poderoso, rozzo e goffo.
«Ponter» lo chiamò per la terza volta. «C'è… una cosa che volevo dirti.» Si fermò. Una parte di lei le consigliava di lasciar perdere, di tenere per sé i suoi sentimenti. Del resto, potevano anche trovare già chiuso il varco che si era così magicamente aperto; nel quel caso avrebbe continuato a vederlo ogni giorno dopo aver messo a nudo la sua anima, quell'essenza immateriale che, era convinta, avevano entrambi, anche se per lui non era così.
«Sì?» disse Ponter.
«Entrambi pensavamo che una fatalità irripetibile ti aveva portato in questa versione della Terra, e che saresti rimasto qui per sempre.»
Ponter annuì, scrollando il faccione che annuiva nella semioscurità.
«Pensavamo che non potessi più rivedere Jasmel, Megameg o Adikor» continuò. «E anche se so bene che il tuo cuore appartiene a tutti loro, ora e per sempre, avevo anche pensato che ti fossi rassegnato a vivere qui da noi, su questa Terra.»
Ponter annuì ancora, distogliendo lo sguardo. Forse aveva capito quello che stava per dirgli, e pensava che non ci fosse nulla da aggiungere.
Ma doveva farlo. Doveva fargli capire che non era stata colpa sua, ma di lei.
No, no. Non era così. Non era nemmeno colpa sua, ma di quel mostro senza faccia, quel demonio. Era lui che si era intromesso tra di loro.
«Poco prima che ci conoscessimo, il giorno del tuo arrivo qui a Sudbury, io sono…»
Le mancarono le parole. Sentiva il cuore martellare nel frastuono del montacarichi che affondava nella roccia.
Superarono il livello dei tremilacinquecento metri. Intravide un minatore in una galleria, in attesa di risalire; lo stridente raggio di luce del suo casco saettò nella cabina, scivolando sui loro volti, intrusi in quel luogo.
Ponter aspettava. E lei parlò: «Quella notte, sono stata…»
Avrebbe voluto pronunciare la parola, serenamente, coraggiosamente, ma non le riuscì. «Io… mi hanno fatto del male» disse infine.
Ponter piegò il capo da un lato, perplesso. «Ti hanno ferita? Mi dispiace.»
«No. Voglio dire che… è stato un uomo a farmi del male.» Respirò a fondo. «Sono stata assalita, a York, nel campus dell'università dove lavoro, di sera.» Dettagli inutili che allontanavano la parola che sapeva di dover dire. Abbassò lo sguardo sul pavimento di metallo ricoperto di fango. «Sono stata violentata.»
Hak emise il solito bip. Ebbe il buon senso di farlo suonare forte, per superare il frastuono del montacarichi. Mary ci riprovò. «Sono stata assalita. Sessualmente assalita.»
Anche nel trambusto sentì Ponter fare un gran sospiro. Alzò la testa e ne cercò lo sguardo dorato nella semioscurità. Gli occhi guizzavano in cerca di qualche reazione, cercando di intuire i suoi pensieri.
«Mi dispiace moltissimo» disse Ponter dolcemente.
Non le venne altro da dire che: «Non è stata colpa tua.»
«No» disse Ponter. Adesso era lui a non sapere cosa dire, finché non le chiese: «Ti hanno fatto… molto male?»