L'uomo aveva annuito: «A casa. Portami a casa.»
«Ponter, lo farei con tutto il cuore, ma è impossibile. Lo sai, non siamo in grado di farlo.»
«No, no» aveva spiegato Ponter. «Non intendo la mia casa nel mio mondo, ma il posto in questa versione della terra che corrisponde a quello dove sorge casa mia.»
Era rimasta sorpresa; quel pensiero non l'aveva nemmeno sfiorata. «Uhm, va bene. Si può fare, se ti va. Ma come possiamo trovarla? Hai qualche punto di riferimento?»
«Se mi fai vedere una mappa dettagliata della zona la trovo io.»
Reuben gli aveva rivelato la password per entrare nel sito web della Inco, dove trovarono le carte geologiche dell'intero bacino di Sudbury. Ponter non aveva avuto problemi a riconoscere i luoghi e a individuare il posto che cercava, che si trovava a una ventina di chilometri dall'abitazione di Reuben.
Buona parte del territorio circostante la città di Sudbury era ricoperto di rocce dello scudo canadese, di foreste e boscaglia. Avevano dovuto lasciare la macchina e scalare la collina. Anche se Mary non era quello che si dice un atleta — giocava occasionalmente a tennis, con scarsi risultati — quell'esercizio fuori programma non le dispiacque, soprattutto dopo tutto il tempo trascorso forzatamente in casa di Reuben.
Finalmente giunsero al culmine di un promontorio, dove Ponter si lasciò andare a un grido di gioia. «Eccola! Eccola lì. E lì che sorgeva la mia casa. Anzi, è lì che sorge.»
Mary si fermò ad abbracciare con lo sguardo il panorama: da un lato c'erano dei grandi pioppi mescolati a smilze betulle, ricoperti di bianche cortecce simili a carta; dalla parte opposta un lago in cui sfociava un ruscello gorgogliante. Anatre selvatiche galleggiavano placide sull'acqua, e uno scoiattolo saltellava sulla riva.
«Che meraviglia» disse Mary.
«Sì» disse Ponter tutto eccitato. «Anche se nel mio mondo la vegetazione è completamente diversa. O meglio, le piante appartengono alla stessa specie, ma sorgono in posti differenti. Le rocce invece sono molto simili e… guarda quel masso nel ruscello! Ah, come lo conosco bene. Lì sopra ci ho passato un sacco di tempo a leggere.»
Si allontanò di corsa per qualche metro, poi gridò: «Qui! Esattamente in questo punto c'è la porta di servizio della nostra casa. E qui… questa è la nostra cucina.» Fece ancora qualche passo, sempre di corsa. «E la stanza da letto è proprio qui, sotto i miei piedi.» Fece un ampio gesto con il braccio, indicando il panorama. «E questa è la vista dalla nostra stanza.»
Mary ne seguì lo sguardo. «E nel tuo mondo qui intorno ci sono i mammut?»
«Oh, sì. E cervi, e alci.»
Mary indossava una camicetta larga e un paio di pantaloni sportivi leggeri. «Ma come fanno i mammut d'estate a sopportare il caldo con tutta quella pelliccia addosso?»
«La perdono» rispose Ponter riavvicinandosi. Poi chiuse gli occhi e disse con voce gonfia di nostalgia: «I rumori. Il fruscio delle foglie, il ronzio degli insetti, il ruscello, e… eccolo! Lo senti? Il richiamo della strolaga.» Scosse lievemente il capo, in estasi. «È lo stesso della mia terra.» Quando riaprì gli occhi, Mary notò delle venature rosa attorno all'iride dorata. «È così vicino» disse con voce tremante. «È talmente vicino, che se solo potessi…» Richiuse gli occhi, con grande intensità, e tutto il corpo fu scosso da un leggero tremito, come per lo sforzo di superare le barriere tra i mondi.
A Mary sembrò che il cuore le si spezzasse. Doveva essere tremendo, pensò, venire strappati dal proprio mondo e abbandonati in qualche luogo sconosciuto, così simile eppure così alieno. Alzò la mano, senza sapere bene cosa volesse fare. Ponter si voltò verso di lei, e senza accorgersene, senza sapere chi dei due aveva fatto il primo passo, si ritrovò abbracciata al suo ampio torace, con la testa di lui poggiata sulle sue spalle. Gli accarezzò dolcemente i lunghi capelli biondi, mentre lui si lasciava andare a un pianto dirotto.
Non ricordava l'ultimo uomo che aveva visto piangere. Forse era stato Colm, ma non certo per il dolore del matrimonio fallito. Oh, no, quello era stato affrontato con un silenzio spietato. Era successo alla morte della madre. E comunque anche in quell'occasione aveva fatto il duro, concedendosi solo qualche lacrima. Ponter invece stava piangendo senza vergogna per il mondo, l'amore e i figli che aveva perduto. Lasciò che si sfogasse, senza parlare.
Quando smise, alzò la testa e la guardò negli occhi. Parlò nella sua lingua. Mary si aspettava che Hak avesse tradotto qualcosa del tipo 'Scusami.' Non è quello che dice un uomo dopo aver pianto, dopo aver abbassato la guardia ed essersi lasciato andare? Ma non fu quella la parola. Disse solo 'grazie.' Mary gli sorrise affettuosamente, e lui le restituì il sorriso.
Quella mattina Jasmel si recò dalla donna di Adikor, Lurt.
Come aveva immaginato, la trovò nel suo laboratorio, intenta al lavoro. «Buongiorno» la salutò entrando.
«Jasmel! Cosa fai qui?»
«Adikor mi ha chiesto di venire da te.»
«Sta bene?»
«Oh, sì, sta bene. Ma ha bisogno di un favore.»
«Dimmi pure. Per lui farei qualsiasi cosa.»
Jasmel sorrise. «Speravo che avresti risposto così.»
Per accompagnare Ponter fin lì, avevano impiegato più tempo di quanto Mary avesse previsto. Quando tornarono alla macchina, erano da poco passate le sette di sera.
Dopo tutto quel cammino erano entrambi molto affamati. Mary propose di fermarsi da qualche parte a mangiare qualcosa. Sulla strada incrociarono una locanda che serviva carne di daino.
«Che te ne pare?» gli chiese accostando.
«Non saprei» rispose Ponter. «Che cibo fanno?»
«Carne di daino.»
Bip.
«Che roba è?»
«Cervo.»
«Cervo!» esclamò Ponter. «Sì, il cervo mi piace.»
«Io non l'ho mai assaggiato.»
«Ti piacerà, vedrai» la incoraggiò Ponter.
La locanda aveva solo sei tavoli, tutti vuoti. Si sedettero l'uno di fronte all'altra, con al centro una candela accesa. Ci volle quasi un'ora prima che arrivasse il piatto che avevano ordinato, e nel frattempo Mary si accontentò di qualche fetta di pane di segale con burro. Avrebbe preso volentieri anche una bella insalata Caesar, ma se l'aglio dava problemi agli esseri umani, figuriamoci a una persona con l'olfatto di Ponter. Quindi ripiegò su un'insalata della casa, con pomodori essiccati all'aceto, che anche Ponter assaggiò. Sembrava gli fosse piaciuto tutto a parte i crostini, che aveva lasciato intatti nel piatto.
Mary aveva ordinato anche un bicchiere di rosso della casa, che si rivelò tutt'altro che malvagio. «Posso provarlo?» chiese Ponter quando vide il bicchiere pieno di liquido scuro.
Mary ne fu sorpresa, perché a casa di Reuben non aveva voluto assaggiarne. «Certo.»
Prese un piccolo sorso, subito seguito da una smorfia. «Ha un sapore aspro» fu il suo commento.
Mary annuì. «Vedrai, ti piacerà.»
Ponter le restituì il bicchiere. «Non credo.» Mary pasteggiò allegramente, soddisfatta del delizioso ambiente rustico che aveva scelto, in compagnia di un uomo così garbato.
Naturalmente il locandiere aveva immediatamente riconosciuto Ponter. D'altra parte, uno così non passava certo inosservato, e poi aveva notato che parlava piano in una lingua sconosciuta, e che qualche strumento arcano traduceva in inglese le sue parole. Alla fine l'uomo ruppe gli indugi, e avvicinandosi al tavolo fece la sua richiesta: «Mi scusi signor Ponter, mi farebbe un autografo?»
Mary sentì il bip, e vide le sopracciglia del Neandertal inarcarsi. «Un autografo» gli spiegò «è il tuo nome scritto su un foglio. La gente colleziona autografi delle celebrità.» Un altro bip. «Celebrità. Persone famose. Come te.»
Ponter guardò l'uomo, sbalordito. «Io… ne sarei onorato» disse infine.