Louise annuì. «Credo proprio che tu abbia ragione.»
«Che possiamo fare?» chiese Mary.
Reuben aggrottò la fronte, come per trovare le parole giuste, quindi disse: «Qui a Sudbury non c'è molta gente col mio stesso colore di pelle. Pare che a Toronto le cose vadano un po' meglio, ma anche lì capita che la polizia perseguiti la gente di colore. 'Cosa fai qui? È tua questa macchina? Mostrami un documento.'» Scosse la testa. «Quando ti succede, ne ricavi qualche insegnamento, per esempio capisci che anche tu hai dei diritti. Ponter non è un criminale, e non rappresenta una minaccia per nessuno. Non si trova alla frontiera, quindi nessuna autorità può impedirgli di andare dove gli pare. Il governo e la polizia potrebbero volerlo tenere sotto controllo, ma questo non cambia le cose: anche Ponter ha i suoi diritti.»
«D'accordissimo con te» disse Mary.
«Siete mai state in Giappone?» chiese Reuben.
Entrambe scossero la testa.
«È un paese meraviglioso, ma ci vivono solo giapponesi. Puoi trascorrere giorni interi senza vedere un bianco, figuriamoci un nero. In una settimana ho incontrato solo due neri. E mi ricordo quel giorno che passeggiavo al centro di Tokio: avrò incrociato diecimila persone, tutti giapponesi. Improvvisamente ho visto un bianco che mi veniva incontro, sorridendo. Sapeva bene che non ero della sua razza, ma mi ha riconosciuto come un occidentale, e mi ha sorriso, come per dire 'sono così felice di incontrare un fratello'… un fratello! E mi sono accorto che rispondevo al sorriso, e che stavo pensando la stessa cosa. Non l'ho mai dimenticato.» Guardò le due donne, quindi prosegui: «Insomma, il buon Ponter può girare tutto il mondo senza mai vedere una sola faccia che gli ricordi la sua gente. Io e quel bianco, e anche tutti quei giapponesi, abbiamo molto più in comune di lui rispetto ai sei miliardi di persone che vivono sulla Terra.»
Mary sbirciò Ponter in cucina, sempre intento a guardare fuori dalla finestra, il viso poggiato sul palmo della mano. «Cosa possiamo fare?»
«Da quando è qui è sempre vissuto come un prigioniero» disse Reuben. «Prima in ospedale, poi qui dentro, in quarantena. Sono convinto che abbia bisogno di tempo per recuperare il suo equilibrio. La mia amica Gillian Ricci mi ha avvertito con una e-mail quello che avevo previsto è stato puntualmente preso in considerazione da quelle facce di bronzo — dovrei dire facce di nichel — della Inco. Vogliono metterlo sotto torchio per avere informazioni sui giacimenti minerali del suo mondo. Sono convinto che darebbe una mano ben volentieri, ma ha bisogno di tempo per abituarsi alla sua nuova condizione.»
«Hai ragione» convenne Mary. «Ma cosa possiamo fare per aiutarlo?»
«Domani mattina finisce la quarantena, no? Gillian mi ha consigliato di tenere un'altra conferenza stampa, domani mattina alle dieci. Naturalmente tutti si aspetteranno di trovare Ponter, quindi dovremo portarlo fuori di qui prima di quell'ora.»
«E come?» domandò Louise. «La polizia ha circondato tutto l'isolato, con il pretesto che qualcuno potesse infastidirci, ma la vera ragione era sorvegliare Ponter.»
Reuben annuì. «Uno di noi deve portarlo in campagna, lontano dalla confusione. Io sono il suo medico, e questa è una prescrizione in piena regola: tranquillità e riposo. Lo dirò a tutti. Certo, possiamo tirare avanti così un giorno o due, prima che i grossi calibri di Ottawa ci piombino addosso, ma sono convintissimo che Ponter ne abbia veramente bisogno.»
«Ci penso io» si sorprese a dire Mary. «Lo porto via io.»
Reuben guardò Louise, che si limitò ad annuire.
«Se avvertiamo la stampa che la conferenza è per le dieci, cominceranno ad arrivare almeno un'ora prima» rifletté Reuben. «Quindi se ve la battete dal giardino, diciamo prima delle otto, li freghiamo tutti. Oltre quegli alberi, laggiù, c'è uno steccato: lo passerete facilmente. Dovete solo fare attenzione a non farvi vedere.»
«E poi? Dove andremo?»
«Ci vorrebbe una macchina» suggerì Louise.
«La mia è rimasta alla miniera» si ricordò Mary. «E non posso prendere le vostre: la polizia ci fermerebbe di sicuro. Come ha suggerito Reuben, dobbiamo sgattaiolare via.»
«Questo non è un problema» assicurò Louise. «Posso chiedere a un amico di farsi trovare su una qualunque delle stradine che passano dietro la casa. Vi porterà alla miniera, così potrà recuperare la sua auto.»
Mary sbatté le palpebre. «Davvero?»
«Certo.»
«Io… non conosco questa zona» disse Mary. «Mi servirebbe una carta stradale.»
«Nessun problema» disse Louise. «Conosco la persona che fa per noi: Garth. Ha una macchina con una guida satellitare, vi dirà lui la strada, dovunque vogliate andare.»
«E me la presterebbe? Quelle cose sono molto costose.»
«Be', il favore lo farebbe a me» puntualizzò la giovane ricercatrice. «Forza, fatemelo chiamare, che sistemiamo tutto.» Si alzò e andò al piano di sopra a fare la telefonata. Mary la guardò salire le scale, affascinata e attonita. Chissà come ci si sentiva, si ritrovò a pensare, a essere una donna così bella da poter chiedere agli uomini qualsiasi cosa, con la certezza che non ti avrebbero detto di no.
Mentre Ponter era l'unico a sentirsi fuori dal mondo.
Jasmel e Adikor presero un cubo volante per tornare a casa. Durante il tragitto parlarono poco, un po' perché Adikor stava ripensando alle rivelazioni fatte da Daklar, ma anche perché a nessuno dei due andava a genio l'idea che qualcuno all'archivio degli alibi potesse controllare ogni parola che si scambiavano.
E comunque avevano un problema irrisolto: Adikor doveva assolutamente scendere nel laboratorio; la pur minima possibilità ancora esistente di salvare Ponter, o anche di recuperarne in qualche modo il corpo — anche se di questa ipotesi non aveva parlato a Jasmel — dipendeva da questo. Ma come fare? Diede un'occhiata al suo Companion, nel polso sinistro. Si chiese se fosse possibile strapparlo via, facendo però attenzione a non danneggiare l'arteria radiale. Una volta sconnesso dal corpo l'impianto non avrebbe più trasmesso i suoi segnali vitali. E non poteva nemmeno trapiantarlo su Jasmel o su qualcun altro, perché era tarato sulle sue caratteristiche biometriche.
Il cubo li lasciò di fronte a casa. In cucina, Jasmel si mise a cercare qualcosa da mangiare per Pabo, mentre Adikor si accomodava, lo sguardo perso sulla sedia su cui Ponter era solito sistemarsi per leggere.
Eludere la sorveglianza speciale era un problema di alta tecnologia, considerò. Doveva pur esserci un modo per raggirare il suo Companion e chiunque stesse controllandone le trasmissioni.
Conosceva la storia di Lonwis Trob, l'ideatore della tecnologia dei Companion, che aveva lavorato all'Accademia, ma ormai era trascorso molto tempo, e non ne ricordava più i dettagli. Naturalmente poteva sempre chiedere le informazioni necessarie al Companion, ma la cosa avrebbe attirato l'attenzione.
Cominciò a sentire l'ira montargli dentro, i muscoli tesi, il battito cardiaco accelerato e il respiro affannoso. Pensò di mascherare questo suo stato, e… ma no, chi lo guardava doveva sapere come lo stavano riducendo!
Nonostante l'abilità di Trob, doveva pur esserci un modo per fare quello che aveva in mente, quello che doveva assolutamente fare. In pratica, di che si trattava? Mettere esattamente a fuoco il problema, come gli avevano insegnato all'Accademia. Nel caso in questione, cosa avrebbe dovuto fare?
No, non si trattava di eliminare tutti i Companion, anche se sarebbe stata l'unica cosa da fare, visto che non era riuscito a trovare il modo di mettere fuori uso il suo. In realtà, sarebbe stato irragionevole disattivare tutti i Companion, che in effetti erano posti a salvaguardia della vita. Era il suo che doveva disattivare, ma…
Ma no, anche questo era sbagliato. Non doveva disattivare un bel niente. Se lo avesse fatto, Gaskol Dut e gli altri addetti alla sicurezza non lo avrebbero potuto rintracciare, ma si sarebbero allarmati: non ci voleva un Lonwis per capire che avrebbe cercato di entrare nel suo laboratorio.