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«Buongiorno, signor giudice» salutò l'impiegata, seduta dietro un tavolo a forma di rene su una sedia che sembrava una sella.

«Buongiorno» rispose Sard. «Ho bisogno di accedere all'archivio degli alibi di Ponter Boddit, un fisico della generazione 145.»

La donna annuì e bofonchiò qualcosa a un computer, il cui schermo quadrato mostrò immediatamente una serie di numeri. «Venga con me» disse; Sard e il resto della compagnia seguirono la donna.

Malgrado la mole, la custode aveva un passo agile. Li condusse attraverso una serie di corridoi, sulle cui pareti erano allineate delle nicchie, ognuna contenente un cubo degli alibi, un blocco di granito ricostituito grande quanto una testa umana. «Eccolo qua» disse la donna. «Contenitore numero 16.321: Ponter Boddit.»

Il giudice annuì, quindi mise il polso rugoso sul contenitore, con il Companion in direzione del baluginante occhio blu al centro del cubo. «Io, giudice Komel Sard, con il presente atto dispongo l'apertura del contenitore dell'alibi numero 16.321, necessaria alle indagini in corso. Registrazione dell'ora di apertura.»

L'occhio divenne giallo. Il giudice si fece da parte, e l'archivista puntò il suo Companion: «Io, Mabla Dabdalb, Custode degli alibi, con il presente atto concordo con la richiesta di apertura del contenitore numero 16.321, necessaria alle indagini in corso. Registrazione dell'ora di apertura.» L'occhio divenne rosso ed emise un segnale.

«Ecco fatto, signor giudice. Può usare il proiettore della stanza numero dodici.»

«Grazie» disse Sard, che insieme al suo seguito si diresse nella stanza loro assegnata.

La sala era un ampio quadrato, con una fila di sedili a forma di sella allineati lungo una parete, su cui presero posto tutti a eccezione di Bolbay, che si avvicinò alla consolle di controllo incastrata nel muro. Era possibile accedere agli archivi degli alibi solo da quell'edificio; e, a protezione di eventuali visioni degli alibi non autorizzate, il padiglione dove erano sistemati gli archivi era completamente isolato dalla rete di informazioni planetaria, né esistevano linee di telecomunicazione con l'esterno. Anche se era scomodo recarsi di persona a visionare le proprie registrazioni, tale isolamento era reputato una tutela adeguata.

Bolbay esaminò il gruppetto che aveva radunato, e cominciò: «Molto bene. Adesso vedremo i fatti accaduti il 146/128/11.»

Adikor annuì rassegnato. Non ricordava quello che era accaduto l'undicesimo giorno, ma la centoventottesima luna dalla nascita della generazione 146 suonava bene.

La stanza piombò nel buio, e dall'alto si materializzò una sfera appena visibile, simile a una bolla di sapone. Evidentemente Bolbay non era soddisfatta della sua grandezza: Adikor la sentì smanettare sul pannello dei comandi, aumentando gradualmente il diametro. Al suo interno comparvero tre sfere più piccole, ognuna di un colore lievemente diverso. Ognuna delle tre sfere si scisse in tre ulteriori sfere, e così via, come l'immagine accelerata di una cellula sconosciuta in un processo di mitosi. La superficie delle sfere più grandi veniva via via occupata da quella delle sfere più piccole, che assumevano sempre nuovi colori, finché il processo ebbe termine e nella prima sfera prese forma l'immagine, simile a una scultura tridimensionale composta di perline, di un giovane in piedi in una stanza a pressione positiva, adibita allo studio nell'Accademia delle scienze.

Adikor annuì; la registrazione era stata effettuata molto prima che fossero sviluppate le nuove risoluzioni fotografiche, ma tutto sommato la qualità dell'immagine era accettabile.

Bolbay continuava ad armeggiare sul pannello di controllo. La bolla ruotava in modo che tutti i presenti nella stanza potessero vedere il viso della persona inquadrata: si trattava di Ponter Boddit. Adikor aveva dimenticato com'era il suo volto da giovane. Si girò verso Jasmel, che gli sedeva accanto. La ragazza aveva gli occhi spalancati, colmi di meraviglia. Forse la colpiva il fatto che in quel tempo suo padre avesse più o meno la sua età; in effetti, quando erano state girate quelle immagini Klast era già incinta di lei.

«Ovviamente si tratta di Ponter Boddit» disse Bolbay. «Qui aveva circa la metà degli anni che avrebbe se fosse ancora vivo.» E aggiunse subito, per evitare un ennesimo rimprovero dal giudice: «Adesso andrò avanti velocemente…»

Le immagini di Ponter seduto, in piedi, che passeggiava in una stanza, consultava degli appunti, si grattava contro un palo, scorsero velocissime. Poi la porta si aprì — la pressione positiva della stanza era costruita in modo da non lasciar filtrare gli ormoni, che avrebbero potuto disturbare lo studio — e il giovane Adikor Huld fece il suo ingresso nella stanza.

«Fermi l'immagine» ordinò il giudice Sard. Quindi, rivolto ad Adikor: «Scienziato Huld, conferma che si tratta di lei?»

Adikor era mortificato nel vedersi in quelle condizioni; aveva dimenticato che per un breve periodo della sua vita aveva tagliato la barba. Ah, fosse stata quella l'unica follia della sua gioventù! «Sì, Vostro Onore,» rispose a voce bassa «sono io.»

«Bene» prese atto Sard. «Procediamo.»

L'immagine nella bolla ricominciò ad andare avanti a grande velocità. Adikor si muoveva nella stanza, come lo stesso Ponter, la cui immagine rimaneva sempre al centro della sfera.

I due giovani davano l'impressione di conversare amabilmente…

Poi un po' meno…

Bolbay mise il nastro a velocità normale.

Ponter e Adikor stavano litigando.

E poi…

… poi…

… poi…

Adikor avrebbe voluto chiudere gli occhi: il ricordo di quel fatto era stampato a fuoco dentro di lui, ma non aveva mai visto la scena da un'altra prospettiva, né l'espressione del suo volto…

Così guardò.

Si vide serrare i pugni…

… il braccio che andava indietro, i bicipiti che si indurivano…

… il braccio che scattava in avanti…

… Ponter che abbassava la testa appena in tempo…

… il pugno che colpiva la mascella…

… la mascella che s'inclinava da un lato…

… Ponter che barcollava all'indietro, e il sangue schizzargli dalla bocca…

… Ponter che sputava un dente.

Bolbay bloccò di nuovo l'immagine. Be', almeno lo aveva fatto sul primo piano di Adikor, che in quel momento mostrava un'espressione di grande rimorso, persino scioccata. Sì, adesso si era chinato per aiutare Ponter ad alzarsi. Si stava chiaramente scusando per l'accaduto, che naturalmente avrebbe potuto… uccidere Ponter Boddit, sfondandogli il cranio con quel pugno sferrato con tutta la forza di cui disponeva.

Megameg piangeva. Jasmel si era allontanata da Adikor. Il giudice Sard scuoteva lentamente il capo, incredula. E Bolbay…

Bolbay si stagliava davanti, le braccia incrociate sul petto.

«Allora, Adikor» lo avvertì «devo mostrare la scena con tutto l'audio, o ci risparmierai del tempo raccontandoci il motivo del litigio?»

Adikor era disgustato. «Quello che hai fatto non è corretto» disse a voce bassa. «Non è leale. Sono stato in cura per imparare a controllare quegli scatti violenti: regolazione dei livelli dei neurotrasmettitori; lo scultore della mia personalità lo potrà confermare. È stata l'unica volta nella mia vita che ho aggredito qualcuno.»

«Non hai risposto alla mia domanda» lo incalzò Bolbay. «Perché avete litigato?»

Adikor non rispose, limitandosi a scuotere lentamente il capo.

«Allora, scienziato Huld?» lo esortò il giudice.

«Per una cosa insignificante» rispose Adikor, lo sguardo basso sul pavimento ricoperto di muschio. «Si trattava…» respirò a fondo, poi, lentamente, raccontò tutto: «Si trattava di una discussione filosofica, sulla fisica quantistica. C'erano tante interpretazioni sui fenomeni dei quanti, ma Ponter difendeva una tesi sbagliata, come lui stesso sapeva benissimo. Io… so che mi stava solo stuzzicando, ma…»

«Ma non lo potevi sopportare» concluse Bolbay per lui. «Hai perso la testa per una futile discussione scientifica: per così poco hai colpito Ponter rischiando di ucciderlo, se solo lo avessi preso qualche centimetro più su.»

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