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«Sì» disse Hask. «Un impatto, mentre entravamo nel vostro sistema solare. Con nostra grande sorpresa, c'erano molti detriti intorno.»

«A che distanza?»

«Forse cinquanta volte il raggio orbitale della Terra.»

Clete annuì tra sé. La cinta di Kuiper — la fonte delle comete con fasi orbitali fino a venti anni. «Il danno è grave?»

«Deve essere riparato» disse Hask. «Vostro aiuto necessario.»

Clete sentì le sue sopracciglia inarcarsi. «Naturalmente. Sono sicuro che saremo contenti di farlo.»

La navetta da sbarco continuò ad avvicinarsi all'astronave madre, che secondo le stime di Clete era lunga trecento metri. Se lo scafo fosse stato più riflettente, sarebbe stata facilmente visibile da terra.

Alla fine il mezzo si collegò allo scafo dell'astronave madre, fissandosi proprio dietro al modulo a bulbo; Clete sentiva il fragore dei morsetti di attracco che si agganciavano alla nave. Niente ponti di hangar con la porta a valva di mollusco come sulla nave spaziale Enterprise. Clete l'aveva sempre trovata poco credibile — per la quantità di aria che sarebbe stato necessario pompare fuori e dentro. Altri tre mezzi di atterraggio — due uguali a quello in cui si trovava e un altro molto più lungo e stretto — erano già agganciati allo scafo. C'era anche un altro punto di attracco aggiuntivo, non utilizzato.

«L'altro attracco è in più o manca una nave?» chiese Clete.

«Manca nave» disse Hask. «Una è stata sbattuta via durante l'impatto; non siamo riusciti a recuperarla.»

Hask si mosse in avanti, e sia la porta esterna che quella interna della camera di equilibrio si aprirono lateralmente, rivelando l'interno dell'astronave madre. L'illuminazione era giallo-bianca, e piuttosto fioca. Se il colore era quello della luce solare nel mondo Tosok, dovevano venire da una stella di classe G. Nella zona stellare locale, oltre al Sole, solamente Alfa Centauri e Tau Ceti erano di classe G.

Dentro la nave faceva freddo — forse dieci gradi. L'assenza di peso era completamente inebriante. Clete si divertì con qualche avvitamento orizzontale mentre Hask lo guardava e il ciuffo sulla sua testa si muoveva in un modo che poteva indicare divertimento. Ben presto però Hask si mosse fluttuando lungo un corridoio e Clete lo seguì, tentando di destreggiarsi mentre teneva d'occhio il piccolo schermo a cristalli liquidi della videocamera. Dato che i Tosok avevano viaggiato per duecentoundici anni, Clete si aspettava che l'interno della nave fosse spazioso, ma in quanto a spazi aperti non sembrava ci fosse molto, e non avevano ancora visto un altro Tosok.

«Dove sono gli altri?» chiese Clete.

«Di qua» disse Hask. Ogni pochi metri dava una leggera spinta sulla parete con la mano posteriore per portarsi avanti. Quando i motori erano accesi era chiaro quale parte del corridoio fosse il pavimento e quale il soffitto: questo era attrezzato con delle luci circolari giallo-bianche fissate a intervalli regolari. In mezzo c'erano delle minuscole lampade arancioni, molto più fioche, che Clete interpretò come illuminazione di emergenza.

I pavimenti erano coperti da — be', all'inizio Clete pensò che si trattasse di un tappeto, ma quando ci premette contro la mano per spingersi avanti si rese conto che era una specie di pianta, con le foglie viola. Non era erba; piuttosto, sembrava una soffice trapunta. A Clete vennero in mente diverse possibilità: che il rivestimento di piante succhiasse il biossido di carbonio, o qualche altro gas di scarico, e lo reintegrasse con l'ossigeno; che fosse una risorsa alimentare per i Tosok; oppure che semplicemente a loro piacesse la sensazione di camminarci sopra a piedi nudi. Anche se non riteneva di capire ancora molto della psicologia dei Tosok, qualunque cosa li avesse aiutati in un viaggio plurisecolare era sicuramente utile.

Arrivarono finalmente alla stanza verso cui Hask era diretto. La porta si aprì, e uno sbuffo di condensa li investì, insieme a uno spostamento d'aria così freddo che fece venire a Clete la pelle d'oca. Si augurò di non aver appannato le lenti della sua videocamera.

Dentro la minuscola stanza c'erano altri sei Tosok, agganciati a dei piani speciali e quasi completamente coperti da teli di plastica rossa. C'erano due piani vuoti, senza teli; probabilmente uno era di Hask e l'altro doveva appartenere all'ottavo membro dell'equipaggio, che, secondo quanto Hask aveva detto, era morto. Clete vide che c'erano delle scanalature per le braccia lungo i piani. Clete non capiva se gli altri Tosok fossero sdraiati supini o meno; finora le uniche differenze che aveva notato tra la parte anteriore di Hask e quella posteriore erano l'interno della bocca, il colore degli occhi e la robustezza del braccio anteriore. Ma questi Tosok avevano occhi e bocca chiusi e il braccio che avevano in alto era coperto dai teli.

«Che cosa stanno facendo?» chiese Clete.

«Dormono» disse Hask.

Tutti nello stesso momento? Sicuramente l'equipaggio non faceva turni, e — in quel momento capì — non stavano dormendo da qualche ora. Dormivano da anni — da secoli. Ecco come i Tosok erano riusciti a viaggiare così a lungo: ibernati.

Clete inclinò la videocamera per guardare la stanza. Dei pannelli illuminati erano posizionati su dei piedistalli vicino a ogni piano. Ciascuna aveva sopra diverse tabelle animate, a barre e grafici x-y. Clete pensò che si trattasse di cartelle mediche, per monitorare le condizioni dell'equipaggio ibernato. Uno studio attento avrebbe rivelato molto della fisiologia dei Tosok. Alcuni pannelli avevano inserite delle parti aggiuntive; altri avevano delle prese a tre fori senza nessuna aggiunta. «Accenderò il riscaldamento» disse Hask «e si sveglieranno. Quello — indicò un Tosok molto più scuro di lui — è Kelkad, il capitano di questa nave.»

Non era criogenia — il tipo di congelamento per la sospensione dell'animazione che gli umani avevano a lungo sognato. Sì, faceva freddo — molto sotto lo zero — ma non aveva niente a che fare con lo zero assoluto. Sembrava che i Tosok avessero una capacità naturale di ibernarsi, proprio come facevano molti animali sulla Terra.

Clete indossava dei jeans e una giacca di cotone, e nessuno dei due lo isolava sufficientemente dal freddo. Guardò in giro per la stanza, gustandosi ancora l'assenza di peso. Trovava affascinante ogni dettaglio dell'ingegneria dei Tosok. Gli unici punti in cui vedeva delle serrature era dove chiaramente dovevano essere aperte per la manutenzione, come le cinture che fissavano i supporti dei sedili nella capsula di atterraggio. Tutto il resto sembrava fosse stato modellato in un unico pezzo, soprattutto di ceramica, anche se in qualche punto era visibile del metallo.

«Possono ibernarsi per secoli senza l'aiuto di attrezzatura o di farmaci?» chiese Clete.

«Sì.»

Clete scosse la testa. «Sai, prima che gli umani andassero nello spazio non eravamo neanche sicuri di poter sopravvivere lì. Dopo tutto, avevamo sempre vissuto sotto la forza di gravità della Terra — sembrava ragionevole che la natura potesse aver usato l'alimentazione a gravità nei nostri sistemi circolatori, in quelli digestivi, o altrove. Ma non era così. Possiamo vivere benissimo a gravità zero. L'unica parte di noi che si basa sulla gravità — il senso dell'equilibrio, che è controllato da fluidi all'interno dei nostri orecchi — semplicemente si interrompe a gravità zero. Per i sognatori come me, questo significava che la nostra razza fosse fatta per andare nello spazio.»

Il traduttore di Hask aveva suonato qualche volta per le parole sconosciute nei commenti di Clete, ma l'alieno aveva chiaramente capito il nocciolo di ciò che l'umano aveva detto. «Pensiero interessante» rispose.

«Ma voi ragazzi» disse Clete «che siete in grado di fermarvi per secoli, che avete questa capacità innata. Sapete alterare la gravità nello spazio, naturalmente, attraverso la forza centrifuga o l'accelerazione costante. Ma non potete fare niente per il tempo che ci vuole per un viaggio interstellare. Con una capacità naturale di sospendere l'animazione, di sicuro ci battete. Forse noi siamo stati programmati per andare nell'orbita planetaria, ma la vostra razza sembra programmata per navigare tra le stelle.»

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