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Arrivato a metà scala, Norton fu contento, una volta di più, che le tenebre nascondessero il panorama sopra e sotto di lui. Sebbene sapesse di dover salire ancora più di diecimila gradini, e potesse immaginare la ripida curva ascendente, il fatto di vederne in realtà solo una minima parte rendeva più sopportabile la prospettiva.

Era alla sua seconda salita, e aveva imparato a non cedere alla tentazione di arrampicarsi troppo in fretta approfittando della scarsa forza di gravità. Infatti, se non si procedeva a ritmo lento e costante, dopo qualche migliaio di scalini cominciavano a dolore le cosce e le caviglie. Muscoli di cui nessuno aveva mai sospettato l'esistenza si mettevano a protestare, ed era necessario riposarsi sempre più spesso e più a lungo. Verso la fine della prima ascesa, Norton aveva passato più tempo riposando che arrampicandosi, e non era bastato. Aveva sofferto per due giorni di crampi alle gambe, e sarebbe stato costretto all'immobilità se non si fosse trovato a bordo dell'astronave in totale assenza di gravità.

Stavolta cominciò a salire adagio, come un vecchio. Era stato l'ultimo a lasciare la pianura, e gli altri lo precedevano di circa mezzo chilometro. Pensava che, una volta sul mozzo, avrebbero potuto aspettare che cessassero le perturbazioni atmosferiche, per ridiscendere subito e non perdere così altro tempo. Forse lassù regnava una calma assoluta, come nell'occhio di un ciclone.

Ma ecco che ancora una volta balzava alle conclusioni facendo pericolose analogie con la Terra. La meteorologia di un intero mondo, anche in condizioni che si ripetono con regolarità, è una cosa estremamente complessa. Dopo secoli e secoli di studio i meteorologi terrestri non erano ancora in grado di fare sempre previsioni esatte. E Rama, oltre a essere un mondo completamente diverso, aveva subito cambiamenti rapidi, perché la sua temperatura era aumentata di parecchi gradi in poche ore. Eppure non si vedevano ancora i segni premonitori degli uragani previsti, anche se di tanto in tanto si levava un alito di vento.

Dopo essere risaliti per cinque chilometri, equivalenti a due chilometri terrestri scarsi, si fermarono a riposare per un'ora al terzo livello, a tre chilometri dall'asse, per ristorarsi con cibo e bevande e massaggiare i muscoli indolenziti. Era l'ultimo punto in cui potevano respirare naturalmente, poi dovevano indossare le maschere a ossigeno, che avevano lasciato su quel ripiano, come gli antichi scalatori dell'Himalaya prima di affrontare l'ultimo tratto di salita.

Un'ora dopo, al termine della gradinata, cominciò l'arrampicata dalla scala a pioli. Per fortuna quell'ultimo chilometro di ascesa verticale aveva un campo gravitazionale ridottissimo. Mezz'ora di riposo, controllo dei respiratori e delle bombole, e poi erano pronti per il balzo finale.

Norton si assicurò che tutti i suoi uomini lo precedessero a intervalli di venti metri l'uno dall'altro. La salita da un piolo all'altro era lunga e noiosa ed era meglio non pensare a niente e avanzare contando i pioli: cento, duecento, trecento, quattrocento…

Era arrivato al milleduecentocinquantesimo, quando si accorse improvvisamente che c'era qualcosa che non andava. La luce che brillava sulla superficie verticale su cui stava arrampicandosi aveva cambiato colore ed era troppo forte.

Norton non ebbe il tempo di chiamare i suoi uomini. Tutto accadde in meno di un secondo.

Con uno schianto silenzioso, la vivida luce dell'alba illuminò Rama.

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La luce era talmente abbagliante, che per un minuto intero Norton dovette stringere gli occhi. Poi si arrischiò a socchiuderli, guardando la parete metallica a pochi centimetri dalla sua faccia. Ammiccò più volte in attesa che si asciugassero le lacrime che si erano formate, e poi si voltò lentamente ad affrontare l'alba.

Resistette solo per qualche secondo prima di essere costretto a richiudere gli occhi. Non era tanto la luce abbagliante a sconvolgerlo (sapeva che a poco a poco ci si sarebbe abituato) quanto lo spettacolo di Rama, visibile per la prima volta in tutta la sua grandiosità.

Norton sapeva già cosa avrebbe visto, eppure rimase sbalordito e cadde in preda a uno spasimo di tremito incontrollabile. Strinse forte le mani sul piolo con la disperazione di un naufrago che si aggrappa a un salvagente. I muscoli degli avambracci si irrigidirono, ma quelli delle gambe, già provati da ore di faticosa salita, parevano sul punto di cedere. Se non si fosse trovato in un ambiente a bassissima attrazione gravitazionale, sarebbe caduto.

Poi, i lunghi allenamenti a cui era stato sottoposto produssero il loro effetto suggerendogli di ricorrere al primo rimedio contro il panico. Sempre tenendo gli occhi chiusi e sforzandosi di non pensare al mostruoso spettacolo che lo circondava, cominciò ad aspirare lunghe boccate, riempiendosi i polmoni di ossigeno per liberare l'organismo dai veleni della stanchezza.

Poco dopo cominciò a sentirsi meglio, ma prima di riaprire gli occhi si sforzò di staccare la destra dal piolo, e non fu un'impresa da poco perché la mano si rifiutava di ubbidire, l'abbassò all'altezza della cintura e agganciò la cinghia del respiratore al piolo. Adesso, qualunque cosa potesse succedere, non sarebbe precipitato.

Respirò ancora a fondo parecchie volte e, sempre a occhi chiusi, accese la radio. — Qui il Comandante — disse, augurandosi che la sua voce avesse un tono normale. — Tutto bene?

Controllò i nomi uno per uno, e dopò che tutti ebbero risposto, alcuni con voce tremula, la fiducia in se stesso e l'autocontrollo finirono col prendere il sopravvento. Erano tutti salvi e aspettavano istruzioni da lui, perché lui era il loro capo.

— Tenete gli occhi chiusi finché non sarete sicuri di poter resistere — disse. — Lo spettacolo è… impressionante. Se qualcuno lo trova troppo spaventoso, continui a salire senza mai voltarsi. Ricordate che fra poco saremo a gravità zero e che non potrete cadere.

Era inutile ricordarlo a spaziali esperti, ma Norton stesso continuava a ripeterselo. Il pensiero della gravità zero era una specie di talismano che lo proteggeva. Nonostante quello che potevano rivelargli gli occhi, Rama non poteva più attirarlo sulla pianura otto chilometri più in basso, e distruggerlo.

Doveva aprire gli occhi e guardare se voleva mantenere la stima di sé. Era una questione di orgoglio e di principio. Ma per prima cosa doveva essere assolutamente sicuro delle proprie reazioni fisiche. Staccò tutte e due le mani dalla scala e passò il braccio sinistro intorno al piolo. Poi aprì e richiuse più volte i pugni finché i crampi non cessarono e, quando finalmente gli parve che tutto fosse a posto, aprì gli occhi e si girò lentamente verso Rama.

La prima impressione fu di un azzurro intenso diffuso. La luce che riempiva la volta del cielo non aveva niente in comune con quella del Sole, pareva piuttosto quella di un arco voltaico. Allora, pensò Norton, il Sole di Rama deve essere più caldo del nostro. Questo interesserà agli astronomi.

Poi capì finalmente cos'erano le misteriose trincee, la Valle Dritta e le sue cinque gemelle. Erano nientemeno che giganteschi tubi luminosi. Rama aveva sei soli lineari disposti simmetricamente nel suo interno. Da ciascuno di essi scaturiva un ventaglio di luce diretto verso l'asse centrale, dimodoché illuminavano tutto. Chissà, pensò Norton, se producevano cicli di luce e di ombra alternati o se Rama era un pianeta dove il giorno non finiva mai?

Gli occhi ripresero a fargli male per aver fissato troppo le luci abbaglianti, e fu ben lieto di richiuderli per un altro po'. Solo allora, da quando l'alba era sorta improvvisamente, fu in grado di elaborare la domanda che avrebbe dovuto porsi fin dal principio.

Chi, o cosa, aveva acceso le luci di Rama?

Tutti gli esami più accurati e approfonditi avevano rivelato che Rama era sterile, e invece adesso si era verificato un fatto non spiegabile mediante l'intervento di forze naturali. Forse qui non c'era vita, ma c'era coscienza, consapevolezza, forse c'erano robot che si erano svegliati dopo un sonno di millenni. Forse questo sfolgorio di luci era frutto di una contrazione involontaria, dell'ultimo guizzo di vita di macchine che reagivano insensatamente al calore di un nuovo sole per poi tornare inerti, e questa volta per sempre.

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