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CAPITOLO VENTISEIESIMO

La sepoltura

Forse fu proprio a causa di quel crepuscolo che l’aspetto del procuratore cambiò bruscamente. Sembrava che fosse invecchiato e si fosse incurvato a vista d’occhio e inoltre era diventato inquieto. Guardò indietro e sussultò, quando lo sguardo cadde sulla scranna vuota, sul cui schienale era steso il mantello. Si avvicinava la notte festiva, le ombre serali giocavano il loro gioco e all’affaticato procuratore parve, probabilmente, che qualcuno sedesse in quella scranna vuota. Cedendo al timore, mosse il mantello, poi lo lasciò, e si mise a percorrere la loggia ora fregandosi le mani, ora accorrendo verso il tavolo e afferrando la coppa, ora fermandosi e guardando con occhi vuoti il mosaico del pavimento, come se cercasse di decifrarvi qualche segno…

In quel giorno, era già la seconda volta che lo afferrava la malinconia. Fregandosi la tempia, nella quale l’infernale dolore del mattino aveva lasciato solo un ricordo soffocato e vischioso, il procuratore si sforzava di capire la causa dei suoi tormenti interiori. E la capí rapidamente, ma cercò di ingannare se stesso. Gli era chiaro che quel mattino si era irreparabilmente lasciato sfuggire qualcosa, e adesso voleva ripararvi con azioni insignificanti e meschine, ma soprattutto tardive. L’inganno di se stesso consisteva nel fatto che il procuratore cercava di convincersi che le sue azioni, quelle attuali, della sera, non erano meno importanti della sentenza del mattino. Ma ci riusciva malissimo.

A una delle svolte si fermò di colpo e fischiò. In risposta rimbombò nel crepuscolo un basso latrato, e dal giardino balzò sulla loggia un gigantesco cane grigio dalle orecchie aguzze, con un collare ornato di piastre dorate.

— Banga, Banga, — gridò debolmente il procuratore.

Il cane si sollevò sulle zampe posteriori e pose quelle anteriori sulle spalle del padrone facendolo quasi cadere, e gli leccò la guancia. Il procuratore sedette sulla scranna. Banga, con la lingua penzoloni e il respiro frequente, si coricò ai piedi del padrone, e la gioia nei suoi occhi significava che era finito il temporale, unica cosa al mondo che l’impavido cane temesse, e anche che adesso si trovava di nuovo lí, accanto all’uomo che amava, rispettava e considerava il piú potente al mondo, signore di tutti, grazie al quale anch’esso si considerava un essere privilegiato, superiore e speciale. Coricato ai piedi del suo padrone, pur senza guardarlo, ma guardando il giardino avvolto dalla sera, capí subito che al suo padrone era successa una disgrazia. Perciò cambiò posa, si alzò, si avvicinò di lato, e pose le zampe anteriori e il muso sulle ginocchia del procuratore, sporcandogli l’orlo del mantello di sabbia umida. Le azioni di Banga dovevano probabilmente significare che cercava di consolare il suo padrone, ed era pronto ad affrontare con lui la mala sorte. Tentava di esprimere questo anche con gli occhi, rivolti al padrone, e con le aguzze orecchie drizzate. Cosí entrambi, il cane e l’uomo, affezionati l’uno all’altro, accolsero la notte festiva sul balcone.

Nel frattempo, l’ospite del procuratore si dava da fare.

Dopo aver lasciato la terrazza superiore del giardino di fronte alla loggia, scese per la scala verso la terrazza successiva, voltò a destra e si avvicinò alle caserme situate nel recinto del palazzo. Là erano dislocate le due centurie che erano giunte insieme al procuratore a Jerushalajim per le feste, nonché la guardia segreta del procuratore, comandata dall’ospite stesso. Questi trascorse nelle caserme poco meno di dieci minuti, ma dopo quel termine, dal cortile delle caserme uscirono tre carri carichi di attrezzi da zappatore e di un barile d’acqua. I carri erano scortati da quindici uomini a cavallo, con mantelli grigi. Accompagnati dai soldati, i carretti uscirono dal recinto del palazzo attraverso il portone posteriore, volsero a ovest, uscirono dalla porta della città e seguirono dapprima un sentiero verso la strada di Betlemme, poi questa strada verso nord giunsero fino all’incrocio presso la porta di Hebron e di lí presero la strada di Giaffa che in quel giorno era stata percorsa dalla processione con i condannati diretti verso il luogo del supplizio. A quell’ora faceva già buio e all’orizzonte spuntò la luna.

Poco dopo la partenza dei carri con il distaccamento che li scortava, si allontanò a cavallo dal palazzo anche l’ospite del procuratore, che adesso indossava un logoro chitone scuro. L’ospite si diresse non verso la campagna, bensí in città. Poco dopo lo si poteva vedere avvicinarsi alla fortezza Antonia, sita a nord, vicinissima al gran tempio. Anche nella fortezza, l’ospite si soffermò per un tempo brevissimo, poi ricomparve nella città bassa, nelle sue vie tortuose e intricate. Qui l’ospite giunse a dorso di mulo.

L’uomo, che conosceva bene la città, trovò facilmente la via che cercava. Portava il nome di Greca, perché vi si trovavano alcune botteghe greche, una delle quali vendeva tappeti. Proprio davanti a questa bottega l’ospite fermò il mulo, ne discese e lo legò a un anello infisso nel portone. La bottega era già chiusa. L’uomo entrò dal cancello vicino all’ingresso della bottega, e si ritrovò in un cortiletto quadrato circondato da magazzini. Voltato un angolo, giunse presso il terrazzo di pietra di una casa d’abitazione coperta di edera, e si guardò intorno. Sia nella casetta che nei magazzini faceva buio, non erano ancora stati accesi i lumi. L’ospite chiamò con voce sommessa:

— Nisa!

A questo appello, una porta scricchiolò, e nel crepuscolo serale apparve sul terrazzo una giovane donna senza velo.

Si chinò sulla balaustra, guardando inquieta, desiderosa di sapere chi fosse. Riconosciuto l’uomo, gli sorrise affabile, lo salutò con un cenno del capo e fece un gesto con la mano.

— Sei sola? — chiese sommessamente in greco Afranio.

— Sí, — sussurrò la donna sul terrazzo, — mio marito è partito stamane per Cesarea, — la donna si voltò a guardare la porta, e aggiunse in un sussurro: — ma la serva è in casa — . Fece un gesto che significava: «entra».

Afranio si guardò intorno e salí i gradini di pietra. Poi entrambi scomparvero nell’interno della casa. Dalla donna Afranio rimase brevissimo tempo, certo meno di cinque minuti. Poi lasciò casa e terrazzo, tirò ancora di piú il cappuccio sugli occhi e uscí in strada. In quel momento nelle case accendevano già i lumi, la calca del giorno di festa era ancora assai grande, e Afranio sul suo mulo si perse nel viavai di passanti e cavalieri. L’ulteriore suo cammino è ignoto a tutti.

La donna che Afranio aveva chiamato Nisa, rimasta sola, cominciò a cambiarsi in fretta e furia. Ma per quanto le riuscisse difficile trovare quanto le occorreva nella camera buia, non accese il lume, né chiamò la serva. Solo quando fu pronta e sulla testa ebbe posto un velo scuro si sentí la sua voce nella piccola casa:

— Se qualcuno chiede di me, di’ che sono da Enanta.

Si udí il borbottio della vecchia serva nell’oscurità:

— Da Enanta? Oh, questa Enanta! Tuo marito ti ha pur proibito di andare da lei! Fa la mezzana, la tua Enanta! Guarda che lo dirò a tuo marito…

— Su, su, smettila, — replicò Nisa, e come un’ombra scivolò fuori dalla casa. I suoi sandali batterono sulle lastre di pietra del cortile. Brontolando, la serva chiuse la porta che dava sul terrazzo. Nisa lasciò la sua casa.

Nello stesso momento, da un altro vicolo nella città bassa, un vicolo tortuoso che scendeva a scalinata verso uno degli stagni della città, dal cancello di una casa poco appariscente la cui facciata cieca dava sul vicolo mentre le finestre si aprivano sul cortile, uscí un uomo giovane dalla barbetta accuratamente spuntata, con in testa un fazzoletto bianco che ricadeva sulle spalle, in un nuovo taleth festivo azzurro con le nappine in basso, e coi sandali nuovi scricchiolanti. Il bell’uomo dal naso aquilino, vestito a festa camminava svelto, superando i passanti che si affrettavano a rientrare per la cena solenne, e guardava le finestre illuminarsi l’una dopo l’altra. Il giovane si dirigeva per la strada che, lungo il mercato, conduceva verso il palazzo del gran sacerdote Caifa, situato ai piedi della collina del tempio.

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