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Questo fischio Margherita non lo sentí, ma lo vide quando fu scagliata insieme al suo focoso cavallo a una ventina di metri di distanza. Vicino a lei una quercia fu sradicata, e la terra si incrinò fino al fiume. Un enorme strato di riva fu scagliato nel fiume insieme con l’imbarcadero e il ristorante. L’acqua nel fiume ribollí, si sollevò, e sulla riva opposta, bassa e verde, fu gettato l’intero battello con i passeggeri assolutamente incolumi. Ai piedi del cavallo sbuffante di Margherita precipitò una cornacchia uccisa dal fischio di Fagotto.

Il Maestro sussultò a quel fischio. Si afferrò la testa e corse indietro verso il gruppo dei compagni che lo aspettavano.

— Ebbene, — si rivolse a lui Woland dall’alto del suo cavallo, tutti i conti sono pagati? L’addio si è compiuto?

— Sí, si è compiuto, — rispose il Maestro e, ormai tranquillo, guardò in viso Woland con franchezza e ardimento.

E allora sui monti echeggiò, come una voce di tromba, la voce terribile di Woland:

— È ora! — e, brusco, il fischio e il riso di Behemoth.

I cavalli si slanciarono e i cavalieri si alzarono in alto, al galoppo. Margherita sentiva che il suo furioso cavallo rodeva e tirava il morso. Il mantello di Woland si gonfiò sopra le teste di tutta la cavalcata e con quel mantello cominciò a coprirsi il firmamento, su cui scendeva la sera. Quando per un istante il nero drappo si spostò da un lato, Margherita, galoppando, si voltò e vide che dietro non c’erano píú non solo le torri variopinte, ma da un pezzo non c’era piú neppure la città, che era sprofondata sotto terra lasciandosi dietro soltanto nebbia e fumo.

CAPITOLO TRENTADUESIMO

Il perdono e l’eterno rifugio

Numi, numi! Com’è triste la terra di sera! Come sono misteriose le brume sulle paludi! Chi ha vagato in queste brume, chi ha molto sofferto prima della morte, chi ha volato su questa terra portando su di sé un peso troppo gravoso, lo sa. Lo sa chi è stanco. Ed egli senza rimpianto abbandona le brume della terra, le sue paludi e i suoi fiumi, a cuore leggero si consegna nelle mani della morte sapendo che essa soltanto lo placherà.

Anche i magici cavalli neri erano spossati e portavano i loro cavalieri lentamente e la notte ineluttabile cominciò a raggiungerli. Sentendola alle proprie spalle, si zittí anche l’instancabile Behemoth, che, avvinghiato alla sella con le unghie, volava silenzioso e serio, con la coda dispiegata.

La notte aveva cominciato a coprire di un nero scialle i boschi e i prati, la notte aveva acceso piccole luci meste laggiú in basso, luci estranee, ormai indifferenti e inutili per Margherita e il Maestro. La notte aveva superato la cavalcata, si disseminava su di essa dall’alto e lanciava ora qua ora là nel cielo rattristato le bianche macchioline delle stelle.

La notte s’infittiva, volava accanto, afferrava i cavalieri al galoppo pei mantelli e, strappatili dalle loro spalle, smascherava gli inganni. E quando Margherita, avvolta dal vento fresco, aprí gli occhi, vide come andava mutando l’aspetto di tutti quelli che volavano verso la loro meta. Quando incontro a loro dall’estremità del bosco cominciò a uscire, purpurea e piena, la luna, tutti gli inganni scomparvero, cadde nella palude, affondò tra le brume l’instabile veste stregonesca.

Difficilmente adesso avrebbero riconosciuto Korov’ev-Fagotto, sedicente traduttore del misterioso consulente che non aveva bisogno di traduzione alcuna, in colui che volava accanto a Woland, a destra dell’amica del Maestro.

In luogo di chi, in una lacera veste da circo, aveva lasciato i Monti dei Passeri sotto il nome di Korov’ev-Fagotto adesso galoppava, facendo tintinnare sommessamente la catena d’oro della briglia, un cavaliere di colore violetto scuro con un volto cupissimo che non sorrideva mai. Teneva il mento appoggiato sul petto, non guardava la luna non si interessava della terra, pensava a qualcosa di suo mentre volava accanto a Woland.

— Perché è tanto cambiato? — chiese sommessa Margherita a Woland, accompagnata dal sibilo del vento.

— Questo cavaliere, un giorno, scherzò in modo poco felice, — rispose Woland voltando verso Margherita il volto dall’occhio placidamente luminoso, — e la freddura che aveva detto mentre discorreva di luce e di tenebre non era molto buona. Da allora il cavaliere dovette scherzare un po’ piú a lungo di quanto avesse previsto. Ma oggi è la notte che si tirano le somme. Il cavaliere ha saldato e chiuso il suo conto.

La notte aveva strappato anche la coda piumosa di Behemoth, lo aveva spellato e aveva gettato il pelo a ciocche nelle paludi. Quello che era stato il gatto che svagava il principe delle tenebre, adesso era un giovine smilzo, un demone-paggio, il miglior buffone che mai sia esistito sulla terra. Anche lui adesso si era zittito e volava silenziosamente, col suo giovane volto offerto alla luce che si spandeva dalla luna.

All’estremo lato volava Azazello, facendo rilucere l’acciaio dell’armatura. La luna aveva mutato anche il suo volto. Era scomparsa senza lasciar traccia la zanna assurda e orribile, e il leucoma si era rivelato falso. Entrambi gli occhi di Azazello erano uguali, vuoti e neri, e il viso era bianco e freddo. Adesso Azazello volava col suo sembiante reale, come un demone dell’arido deserto, come un demone assassino.

Margherita non poteva vedere se stessa, ma vedeva bene com’era mutato il Maestro. I suoi capelli biancheggiavano ora alla luce della luna e si erano raccolti dietro in una treccia che volava al vento. Quando il vento soffiò via il mantello dai piedi del Maestro, Margherita vide sui suoi stivaloni le piccole stelle, che ora si smorzavano ora si accendevano, degli speroni. Simile a un demone giovinetto, il Maestro volava senza staccare gli occhi dalla luna, ma le sorrideva come se la conoscesse bene e l’amasse e, per l’abitudine acquisita nella stanza n. 118, borbottava qualcosa tra se.

E, finalmente, Woland volava anch’egli col suo vero sembiante. Margherita non avrebbe potuto dire di che cosa erano fatte le briglie del suo cavallo, e pensava che, forse, erano catenelle di raggi lunari e il cavallo era soltanto un blocco di tenebra, e la criniera di questo cavallo, una nube, e gli speroni del cavaliere, bianche macchie di stelle.

Cosí volarono in silenzio a lungo, finché anche il paesaggio in basso non cominciò a mutare. I tristi boschi affondarono nel buio terrestre e trassero con sé le opache lame dei fiumi. In basso comparvero e presero a luccicare dei massi, e tra essi nereggiavano abissi, nei quali non penetrava la luce della luna.

Woland arrestò il suo cavallo sulla piatta, squallida cima pietrosa, e allora i cavalieri si mossero al passo, ascoltando i cavalli premere coi loro ferri le selci e i sassi. La luna inondava il pianoro di luce verde e chiara, e Margherita presto scorse in quel luogo deserto una scranna e, su di essa, la bianca figura di un uomo seduto. Forse, quell’uomo era sordo o troppo immerso nelle riflessioni. Non sentiva come fremeva la terra pietrosa sotto il peso dei cavalli, e i cavalieri, senza disturbarlo, gli si avvicinarono.

La luna aiutava bene Margherita, illuminava meglio del miglior lampione elettrico, e Margherita vide che l’uomo seduto, i cui occhi sembravano ciechi, si stropicciava con forza le mani e affissava quei suoi occhi ottenebrati nel disco lunare. Adesso Margherita vedeva che accanto alla pesante scranna di pietra, su cui la luna faceva brillare scintille, giaceva uno scuro, enorme cane dalle orecchie aguzze e come il suo padrone, guardava inquieto la luna. Ai piedi dell’uomo c’erano cocci di una brocca spezzata e si stendeva, senza mai prosciugarsi, una pozza di color rosso-nero.

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