— Che succede in casa? M’impediscono di studiare… Un’altra voce, sgradevole, nasale, replicò:
— Naturalmente, è Behemoth, il diavolo se lo porti!
Una terza voce, tremula, disse:
— Messere! È sabato. Il sole declina. È ora, per noi.
— Scusate, non posso piú chiacchierare, — disse il gatto dallo specchio, — è ora, per noi — . Lanciò la sua browning e spaccò entrambi i vetri della finestra. Poi lasciò colare il petrolio, che divampò da sé, gettando un’onda di fuoco fino al soffitto.
L’incendio fu straordinariamente rapido e forte, come non succede neanche quando brucia il petrolio. Cominciò subito a fumare la tappezzeria, s’infiammò la tenda strappata che giaceva in terra, si misero ad ardere le intelaiature delle finestre dai vetri rotti. Il gatto si raccolse come una molla, miagolò, balzò dallo specchio sul davanzale e scomparve insieme col fornello. Fuori si udirono degli spari. L’uomo seduto sulla scala metallica antincendio al livello dell’appartamento della gioielliera aveva sparato contro il gatto, mentre quello balzava da un davanzale all’altro dirigendosi verso la doccia della grondaia all’angolo della casa che, come si è detto, si stendeva su tre lati di un quadrilatero. Lungo questa doccia, il gatto si arrampicò fin sul tetto. Anche lí fu fatto segno, purtroppo senza risultato, a una sparatoria della polizia che sorvegliava i camini, e il gatto si disciolse nel sole che tramontava inondando di luce la città.
In quel momento il parquet dell’appartamento prese fuoco sotto i piedi degli uomini, e tra le fiamme, nel punto in cui si era sdraiato il gatto quando si fingeva ferito, apparve, acquistando via via spessore, il cadavere del fu barone Meigel con il mento puntato all’insú e gli occhi vitrei. Non era ormai possibile portarlo fuori.
Saltando sulle assicelle fiammeggianti del parquet, battendo con le mani le spalle e il petto che fumavano, quelli che erano stati in salotto arretravano verso lo studio e l’anticamera. Quelli che si trovavano in sala da pranzo e in camera da letto corsero nel corridoio. Arrivarono di corsa anche quelli che erano in cucina, e si precipitarono in anticamera. Il salotto era già pieno di fuoco e di fumo. Qualcuno riuscí a malapena a formare al telefono il numero dei pompieri e a gridare brevemente nel ricevitore:
— Sadovaja 302 bis!…
Non ci si poteva trattenere oltre. Le fiamme guizzavano anche nell’anticamera. Divenne difficile respirare.
Non appena dalle finestre spalancate dell’appartamento stregato si spinsero fuori le prime volute di fumo, in cortile si udirono urli disperati:
— Al fuoco! Al fuoco!
In vari appartamenti, la gente cominciò a gridare al telefono:
— Sadovaja! Sadovaja 302 bis!
Nel momento in cui sulla Sadovaja si udí il suono, che raggela il cuore, delle campane sulle lunghe macchine rosse che accorrevano da tutte le parti della città, la gente che si agitava nel cortile vide che, insieme al fumo, da una finestra del quinto piano uscivano in volo tre sagome scure che parevano d’uomini e una di una donna nuda.
CAPITOLO VENTOTTESIMO
Ultime avventure di Korov’ev e Behemoth
Fossero davvero sagome, o si trattasse solo di un’allucinazione dei terrorizzati inquilini della malaugurata casa sulla Sadovaja, non lo si può naturalmente dire con esattezza. Se erano loro, dove fossero diretti non lo sa nessuno. Dove si separarono, neppure questo si può dire.
Sappiamo però che dopo un quarto d’ora circa dall’inizio dell’incendio sulla Sadovaja, presso le porte a vetri del Torgsin[22] sul mercato Smolenskij apparve un signore alto vestito a quadretti, e con lui c’era un grosso gatto nero.
Sgusciando agilmente tra i passanti, il signore aprí la porta esterna del negozio. Ma un portiere piccolo, ossuto e oltremodo malevolo gli sbarrò il passo dicendogli con irritazione:
— Proibito entrare coi gatti!
— Chiedo scusa, — dice con voce tremula lo spilungone e avvicinò la mano nodosa all’orecchio come se fosse duro di udito: — coi gatti, dice? Ma dove li vede, i gatti?
Il portiere strabuzzò gli occhi, e c’era di che: ai piedi del signore non c’era piú alcun gatto, invece, alle sue spalle, sporgeva, spingendosi nel negozio, un grassone dal berretto strappato, la cui grinta somigliava effettivamente un po’ a quella d’un gatto. In mano, il grassone teneva un fornello a petrolio.
Quella coppietta di visitatori non piacque al portiere misantropo.
— Da noi si compra solo con valuta estera![23] — borbogliò, guardando irritato da sotto le cespugliose sopracciglia grigie che parevano rosicchiate dalle tarme.
— Carissimo, — disse con voce tremula lo spilungone, il cui occhio scintillava attraverso gli occhiali a stringinaso rotti, — ma lei come fa a sapere che io non ne ho? Lei giudica dal vestito? Non lo faccia mai, eccellentissimo guardiano! Potrebbe sbagliare, e di grosso. Si rilegga almeno la storia del celebre califfo Harun al-Rashid. Ma nel presente caso, tralasciando per il momento questa storia, desidero dirle che mi lagnerò di lei col direttore, e gli dirò tali cose sul suo conto che temo le toccherà lasciare il suo posto tra queste porte scintillanti.
— Magari il mio fornello è pieno di valuta, — s’intromise con foga nella conversazione il grassone dall’aspetto di gatto, che continuava a spingere per entrare.
Dietro, il pubblico stava già premendo e arrabbiandosi. Guardando con odio e sospetto la strana coppietta, il portiere si scostò, e i nostri conoscenti, Korov’ev e Behemoth, si ritrovarono nel negozio. Qui, per prima cosa, si guardarono intorno, e poi, con voce sonora, che si sentiva decisamente in tutti gli angoli, Korov’ev dichiarò:
— Splendido negozio! Bello, bellissimo!
Il pubblico intorno ai banchi di vendita si voltò a guardare con sorpresa chi aveva parlato, anche se questi aveva ben ragione di lodare il negozio.
Centinaia di pezze d’indiana dai ricchissimi disegni facevano bella mostra sugli scaffali. Dietro di loro si ammucchiavano calicò e mussole e panni finissimi. In prospettiva si vedevano intere colonne di scatole di calzature, e alcune signore sedevano su bassi seggiolini col piede destro calzato in una scarpa vecchia e logora, e quello sinistro infilato in una scarpina nuova, luccicante, con la quale pestavano preoccupate il tappeto. In fondo, dietro l’angolo, cantavano e suonavano grammofoni.
Tuttavia, trascurando queste delizie, Korov’ev e Behemoth si diressero verso i reparti gastronomici e dolciari. Qui c’era molto spazio, e le signore con in testa fazzoletti o berrettini non si accalcavano contro i banchi di vendita come nel reparto tessuti.
Un uomo piccolo, completamente quadrato, rasato tanto da avere una sfumatura azzurra con gli occhiali cerchiati di corno, con un cappello nuovissimo non sgualcito, dal nastro senza alcuna macchia, con un soprabito violetto e guanti rossicci di daino, stava presso il banco e mugolava qualcosa in tono imperioso. Il commesso col lindo camice bianco e il berrettino azzurro serviva il cliente violetto. Con un taglientissimo coltello, che assomigliava molto a quello rubato da Levi Matteo, a un roseo salmone che stillava lacrime di grasso stava togliendo la pelle dai riflessi argentei simile a quella d’un serpente.
— Anche questo reparto è stupendo, — riconobbe solennemente Korov’ev, — e anche lo straniero è simpatico, — e indicò benevolmente col dito la schiena violetta.
— No, Fagotto, no, — rispose pensieroso Behemoth, — ti sbagli, amico mio: sulla faccia del gentiluomo violetto, secondo me, manca qualcosa.