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— Ma è naturale, è sulla Moscova! Avanti!

Si sarebbe dovuto, forse, chiedere a Ivan Nikolaevič perché riteneva che il professore fosse proprio sulla Moscova e non in qualche altro luogo. Il guaio è che non c’era nessuno che potesse chiederglielo. L’abominevole vicoletto era completamente deserto.

Dopo pochissimo tempo si poté vedere Ivan Nikolaevič sulla scalinata di granito dell’anfiteatro della Moscova.

Dopo essersi tolto i vestiti, Ivan li affidò a un simpatico uomo barbuto che stava fumando una sigaretta fatta a mano, vicino a un camiciotto bianco strappato e a un paio di scarpe scalcagnate e slacciate. Agitò le braccia per rinfrescarsi e si tuffò ad angelo nell’acqua. Il fiato gli si mozzò, tanto era fredda, e gli balenò perfino l’idea che forse non ce l’avrebbe fatta a risalire a galla. Tuttavia ci riuscí, e soffiando e sbuffando, con gli occhi tondi dall’emozione, Ivan Nikolaevič si mise a nuotare nell’acqua nera che puzzava di petrolio, tra i riflessi zigzaganti dei lampioni del lungofiume.

Quando Ivan, tutto bagnato, saltellò sui gradini diretto al posto dove, sotto la guardia dell’uomo barbuto, erano rimasti i suoi vestiti, scoprí che erano spariti non solo questi ultimi, ma anche il primo, cioè l’uomo barbuto. Nel luogo esatto dove aveva lasciato i suoi vestiti trovò un paio di mutandoni a righe, il camiciotto strappato, il cero, la piccola icona e una scatola di fiammiferi. Dopo aver minacciato non si sa chi, Ivan, pieno d’ira impotente, si mise addosso ciò che era rimasto. A questo punto due considerazioni cominciarono a angustiarlo: la prima, che la tessera del MASSOLIT, dalla quale egli non si staccava mai, era scomparsa, e la seconda, come avrebbe fatto ad attraversare Mosca in quello stato senza incontrare ostacoli? Dopo tutto, era in mutande… È vero che ognuno si dovrebbe occupare dei fatti suoi, ma se avessero fatto delle storie o l’avessero trattenuto…

Ivan strappò via i bottoni dalle mutande all’altezza delle caviglie, sperando che in tal modo le avrebbero forse scambiate per pantaloni estivi, raccattò l’icona, i fiammiferi e il cero, e s’incamminò, dicendo a se stesso:

— Da Griboedov! Non c’è dubbio, lui è lí!

La città viveva già la sua vita notturna. Nella polvere filavano autocarri sferraglianti, e nei cassoni, sopra dei sacchi, c’erano uomini sdraiati a pancia all’aria. Tutte le finestre erano spalancate. In ognuna era accesa la luce sotto un paralume arancione, e da tutte le finestre, da tutte le porte, da tutti gli androni, dai tetti e dai solai, dalle cantine e dai cortili prorompeva l’urlo arrochito della Polonaise dall’Evgenij Onegin.

Le preoccupazioni di Ivan Nikolaevič si rivelarono pienamente giustificate: i passanti gli rivolgevano attenzione e si voltavano a guardarlo. Prese quindi la decisione di abbandonare le vie principali e di passare nei vicoli, dove la gente è meno indiscreta e vi sono minori probabilità che importunino un uomo scalzo, esasperandolo con delle battute a proposito di quelle mutande che rifiutavano ostinatamente di assomigliare a dei calzoni.

Ivan fece cosí, si addentrò nella rete misteriosa dei vicoli dell’Arbat e cominciò a rasentare i muri, gettando occhiate spaventate, voltandosi ad ogni istante, nascondendosi a volte sotto i portoni ed evitando gli incroci coi semafori e i lussuosi ingressi delle palazzine delle ambasciate.

Per tutto il difficile percorso, fu tormentato in modo indicibile dall’onnipresente orchestra, col cui accompagnamento un basso cantava gravemente il suo amore per Tat’jana.

CAPITOLO QUINTO

Quel che successe al Griboedov

L’antica casa a un piano, color crema, si trovava sul viale della circonvallazione, in fondo a un anemico giardino separato dal marciapiede da una cancellata di ghisa lavorata. Il piccolo spiazzo davanti alla casa era asfaltato: d’inverno vi sorgeva un mucchio di neve in cui era infilata una pala, d’estate si trasformava in un meraviglioso ristorante all’aperto, riparato da un tendone.

La casa si chiamava Casa di Griboedov perché si diceva che fosse appartenuta alla zia del celebre scrittore Aleksandr Sergeevič Griboedov. Be’, le fosse o no appartenuta, non lo sappiamo con certezza. Anzi, a quanto pare, Griboedov non ebbe mai una zia padrona di immobili… Comunque, la casa si chiamava cosí. Anzi, un conta frottole moscovita affermava che al primo piano, nella sala rotonda con le colonne, il celebre scrittore aveva letto dei brani di Che disgrazia l’ingegno! a questa sua zia, che se ne stava sdraiata sul sofà. Del resto, chi lo sa, forse li aveva letti per davvero, non è questo che conta!

Ciò che conta è che in quel tempo la casa apparteneva a quello stesso MASSOLIT, a capo del quale era stato il povero Michail Aleksandrovič Berlioz prima della sua apparizione agli stagni Patriarscie.

Seguendo l’esempio dei membri del MASSOLIT, nessuno la chiamava la Casa di Griboedov, tutti dicevano semplicemente Griboedov: «Ieri ho brigato due ore al Griboedov». «E allora?» — «Vado a Jalta per un mese». «Sei proprio in gamba!», oppure: «Va’ da Berlioz, oggi riceve dalle quattro alle cinque al Griboedov»… e cosí via.

Il MASSOLIT si era sistemato in quella casa nel modo piú confortevole che si possa immaginare. Chiunque vi entrasse, prima di tutto senza volerlo vedeva i comunicati dei vari circoli sportivi, nonché i ritratti, di gruppo e singoli, dei membri del MASSOLIT, appesi (i ritratti) ai muri della scala che portava al primo piano.

Sulla porta della prima stanza del piano superiore un cartello annunciava a caratteri cubitali: «Sezione di pesca e villeggiatura», e vi era raffigurata una carpa presa all’amo.

Sulla porta della stanza n. 2 c’era una scritta non del tutto comprensibile: «Missioni creative di ventiquattro ore. Rivolgersi a M. V. Podložnaja».

La porta successiva aveva un’iscrizione breve, ma completamente incomprensibile: «Perelygino». Poi lo sguardo del visitatore fortuito si perdeva tra tutte quelle scritte sparse sulle porte di noce della zia: «Le iscrizioni per la distribuzione della carta si accettano dalla Poklevkina», «Cassa», «Conti personali degli autori di sketches»…

Se si fendeva una lunghissima fila che cominciava già in basso, alla portineria, su una porta assediata dalla folla si poteva leggere: «Problema degli alloggi».

Dopo il problema degli alloggi, appariva uno splendido manifesto sul quale era raffigurata una roccia e in cima ad essa si vedeva un cavaliere con un mantello caucasico e un fucile a tracolla. Piú in basso c’erano delle palme e un balcone, sul balcone un giovanotto dal ciuffetto a cresta guardava in alto con occhi furbeschi e teneva in mano una stilografica. La didascalia: «Ferie creative complete da due settimane (racconto-novella) fino a un anno (romanzo, trilogia) per Jalta, Suuk-Su, Borovoe, Cichidziri, Machindžauri, Leningrado (Palazzo d’Inverno)». Anche davanti a questa porta c’era una fila, ma non molto lunga, di circa centocinquanta persone.

Poi seguivano — obbedendo alle capricciose curve, salite e discese della casa di Griboedov — «Direzione del MASSOLIT», «Casse n. 2, 3, 4 e 5», «Redazione», «Presidente del MASSOLIT», «Sala da biliardo», vari uffici ausiliari, e finalmente la sala con le colonne dove la zia si era goduta la commedia del geniale nipote.

Ogni visitatore — che non fosse naturalmente del tutto ottuso — capiva subito come se la passavano bene i beati membri del MASSOLIT, e un’oscura invidia cominciava immediatamente a straziarlo. Rivolgeva al cielo amari rimproveri per non averlo dotato, alla nascita, di ingegno letterario, senza il quale, s’intende, non si poteva neppure sognare di avere una tessera di membro del MASSOLIT, quella tessera bruna con un largo bordo dorato, che odorava di pelle pregiata, ed era nota a tutta Mosca.

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