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Chi spenderà una parola a difesa dell’invidia? È un sentimento catalogabile fra i piú abietti, ma bisogna mettersi nei panni del visitatore. Infatti, quello che egli aveva visto al piano superiore, era ben lungi dall’essere tutto! L’intero pianterreno della casa della zia era adibito a ristorante, che ristorante! A ragione era considerato il migliore di Mosca E non solo perché occupava due grandi sale coi soffitti a volta sui quali erano dipinti cavalli color lilla dalle criniere assire, non solo perché su ogni tavolino c’era una lampada coperta da uno scialle, non solo perché lí non poteva intrufolarsi il primo venuto, ma soprattutto perché per la qualità dei piatti, il Griboedov batteva e strabatteva qualsiasi ristorante di Mosca, e questi piatti venivano serviti a prezzi piú che convenienti, per nulla onerosi.

Perciò non vi è nulla di sorprendente, ad esempio, in questa conversazione sentita un giorno dall’autore di queste veridicissime righe presso la cancellata di ghisa del Griboedov:

— Dove ceni stasera, Amvrosij?

— Che domanda! Qui, naturalmente, caro Foka! Arčibal’d Arčibal’dovič mi ha sussurrato che stasera sulla lista ci sarà del pesce persico au naturel. Una cosettina da maestro!

— Eh, sai vivere, tu, Amvrosij! — rispose con un sospiro Foka, trasandato e magro, con un foruncolo sul collo, a un gigante dalle labbra vermiglie, capelli dorati, e guance paffute: Amvrosij il poeta.

— Non posseggo alcuna sapienza particolare, — replicò Amvrosij, — ma il comune desiderio di vivere umanamente. Tu vuoi dire, Foka, che si può trovare pesce persico anche al Colosseo. Ma al Colosseo una porzione di pesce persico costa tredici rubli e quindici copeche, mentre da noi, cinque e cinquanta! Inoltre, al Colosseo il pesce persico è di tre giorni e, inoltre, nessuno ti garantisce che al Colosseo non sarai preso a grappoli d’uva in faccia dal primo giovincello capitato lí dal Passaggio teatrale. No, sono categoricamente contrario al Colosseo, — tuonava per tutto il viale Amvrosij il gastronomo. — Non cercare di convincermi, Foka!

— Non sto cercando di convincerti, Amvrosij! — pigolava Foka. — Si può cenare a casa!

— Grazie tante, — strombettava Amvrosij. — Me la vedo, tua moglie che cerca di preparare in un pentolino, nella cucina comune, il pesce persico au naturel! Hi-hi-hi!… Au revoir, Foka, — e canterellando Amvrosij si diresse verso la veranda sotto il tendone.

Eh sí… Cose di una volta!… I vecchi moscoviti si ricordano del celebre Griboedov! Pesce persico lesso! Robetta da niente, caro Amvrosij! Pensi invece allo sterleto, allo sterleto in un pentolino argenteo, allo sterleto a pezzetti alternati con code di gamberi e caviale fresco! E le uova-in-cocotte con una purée di funghi in tazza? E i filettini di tordo, non le piacevano? Coi tartufi? E le quaglie alla genovese? Nove e cinquanta! E il jazz, e il servizio cortese! E a luglio, quando tutta la famiglia è in campagna, mentre lei è trattenuto in città da affari letterari improrogabili, sulla veranda all’ombra della vite rampicante, il piatto di soupe printanière in una dorata chiazza sulla lindissima tovaglia? Ricorda, Amvrosij? Ma c’è bisogno di chiederlo? Vedo dalle sue labbra che ricorda. E lei parla di murene e di pesce persico! E le beccacce, i beccaccini, i tordi, le starne, a seconda della stagione, le pernici, le accegge? L’acqua minerale che pizzica in gola?! Ma fermiamoci qui, ti stai distraendo, lettore! Seguimi!…

Alle dieci e mezzo della sera in cui Berlioz era perito ai Patriarscie, al piano superiore del Griboedov era illuminata una sola stanza, e in essa languivano dodici letterati giunti per la riunione e in attesa di Michail Aleksandrovič.

Seduti nella stanza della direzione, sulle sedie, sui tavoli, e perfino su due davanzali, soffrivano molto per l’afa. Non un soffio d’aria fresca entrava dalle finestre spalancate. Mosca restituiva la calura accumulatasi nell’asfalto durante il giorno, ed era chiaro che la notte non avrebbe portato sollievo. Un odore di cipolla saliva dalla cantina, dove si trovava la cucina del ristorante, e tutti avevano voglia di bere ed erano nervosi e irritati.

Il letterato Beskudnikov — un uomo quieto, ben vestito, con gli occhi attenti e insieme sfuggenti — tirò fuori l’orologio. La lancetta avanzava verso le undici. Beskudnikov batté il dito sul quadrante, lo mostrò al suo vicino, il poeta Dvubratskij che stava seduto su un tavolo, dondolando per la noia le gambe calzate di un paio di scarpe gialle dalla suola di gomma.

— Però, — borbottò Dvubratskij.

— L’amico sarà rimasto sulla Kljaz’ma, — commentò con voce densa Nastas’ja Lukinišna Nepremenova, orfana di una famiglia di mercanti moscoviti che, diventata scrittrice, componeva racconti di battaglie navali, firmandosi con lo pseudonimo Capitano Georges.

— Scusate! — disse arditamente Zagrivov autore di sketches di successo. — Anch’io me ne starei con piacere sul balcone a prendere il tè invece di cuocere qui dentro. La riunione, se ben ricordo, era fissata per le dieci.

— Si sta bene, adesso, sulla Kljaz’ma, — disse malignamente il Capitano Georges, sapendo che, Perelygino sulla Kljazima, luogo di villeggiatura dei letterati, era un punto debole per tutti. — A quest’ora staranno già cantando gli usignoli. Non so, io lavoro sempre meglio fuori città, soprattutto in primavera.

— È il terzo anno che verso la quota per mandare in quel paradiso mia moglie che ha il morbo di Basedow, ma non si vede nulla all’orizzonte, — disse velenoso e amaro il novelliere Ieronim Poprichin.

— C’è chi ha fortuna e c’è chi non l’ha, — tuonò dal davanzale il critico Ababkov.

La gioia si accese nei piccoli occhi del Capitano Georges, ed ella disse, addolcendo la sua voce da contralto:

— Non bisogna essere invidiosi, compagni. Ci sono solo ventidue villini, ne stanno costruendo appena altri sette, e noi al MASSOLIT siamo in tremila.

— Tremilacentoundici, — intercalò qualcuno dall’angolo.

— Vedete, — continuò il Capitano, — che si può fare? È naturale che i villini vengano assegnati a quelli di noi che hanno piú ingegno…

— Ai generali! — S’inserí nella discussione lo sceneggiatore Glucharëv.

Beskudnikov, con uno sbadiglio affettato, uscí dalla stanza.

— Lui da solo ha cinque stanze a Perelygino! — gli disse alle spalle Glucharëv.

— E Lavrovič che ne ha addirittura sei! — esclamò Deniskin. — E la sala da pranzo coi pannelli di quercia!

— Oh, questo adesso non c’entra! — tuonò Ababkov. Il fatto è che sono le undici e mezzo.

Cominciarono a rumoreggiare e stava per maturare una specie di sedizione. Si misero a telefonare all’odiata Perelygino, ebbero la comunicazione con un altro villino, con quello di Lavrovič, appresero che Lavrovič era andato al fiume, e questo guastò in modo definitivo l’umore generale. Telefonarono a casaccio alla Commissione per le belle lettere, interno 930, e naturalmente non vi trovarono nessuno.

— Poteva anche telefonare! — gridavano Deniskin, Glucharëv e Kvant.

Ohimè, gridavano invano: non poteva telefonare, Michail Aleksandrovič. Lontano, molto lontano dal Griboedov, in una sala enorme illuminata con lampadine da mille candele, giaceva su tre tavoli zincati ciò che ancora poco prima era stato Michail Aleksandrovič.

Sul primo tavolo, un corpo nudo, col sangue raggrumato, un braccio fracassato, la gabbia toracica schiacciata; sul secondo, la testa con gli incisivi spezzati e gli occhi torbidi aperti che non reagivano piú alla luce violenta; sul terzo, un mucchio di stracci induriti.

Attorno al cadavere decapitato si trovavano: il professore di medicina legale, l’anatomo-patologo e il suo preparatore, rappresentanti delle autorità inquirenti, e il letterato eldybin, sostituto di Michail Aleksandrovič Berlioz al MASSOLIT, chiamato telefonicamente dal capezzale della moglie ammalata.

Una macchina era andata a prelevare Želdybin, e per prima cosa, insieme alla polizia, lo portò (verso mezzanotte) nell’alloggio dell’ucciso, dove furono messi i sigilli su tutti i documenti, e solo dopo raggiunsero l’obitorio.

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