Adesso, raccolti attorno ai resti del defunto, stavano conferendo sul modo migliore di procedere: cucire la testa tagliata al corpo, oppure esporre il corpo nel salone del Griboedov coprendo semplicemente fino al mento la vittima con un drappo nero?
Sí, Michail Aleksandrovič non poteva proprio telefonare, e Deniskin, Glucharëv, Kvant e Beskudnikov gridavano e si indignavano invano. A mezzanotte in punto tutti e dodici i letterati lasciarono il piano superiore e scesero al ristorante. Anche qui imprecarono sottovoce contro Michail Aleksandrovič: i tavolini sulla veranda, naturalmente, erano già occupati, ed essi furono costretti a cenare nelle belle ma afose sale interne.
A mezzanotte in punto, nella prima sala qualcosa si schiantò, tintinnò, si riversò, tamburellò. E subito una sottile voce maschile urlò con accanimento, accompagnata dalla musica: «Alleluja!» Aveva attaccato la celebre orchestra jazz del Griboedov. I volti coperti di sudore sembrarono schiarirsi, i cavalli dipinti sul soffitto parvero animarsi si sarebbe detto che le lampadine erano diventate piú luminose, e di colpo, come scatenati, i clienti delle sale cominciarono a ballare, e poi si misero a ballare anche sulla veranda.
Ballò Glucharëv con la poetessa Tamara Polumesjac ballò Kvant, ballò il romanziere Zukopov con un’attrice cinematografica vestita di giallo. Ballavano: Dragunskij, Čerdakči, il piccolo Deniskin con la gigantesca Capitano Georges, ballava il bellissimo architetto Semejkina-Gall stretta ad uno sconosciuto coi pantaloni di tela bianca. Ballavano i membri e gli ospiti, i moscoviti e i forestieri, lo scrittore Johann di Kronstadt, un certo Vitja Kuftik di Rostov, probabilmente un regista, con una psoriasi violacea su tutta la guancia, ballavano i piú noti rappresentanti della sezione poetica del MASSOLIT, cioè Pavianov Bogochul’skij, Sladkij, scpikin, e Adel’fina Buzdjak ballavano dei giovincelli di professione ignota, coi capelli tagliati a spazzola e le spalle della giacca imbottite, ballava un tipo assai anziano con la barba in cui si era impigliato un pezzo verde di cipollina, con lui ballava una gracile fanciulla divorata dall’anemia, con un vestitino di seta arancione spiegazzato.
Grondando sudore, i camerieri portavano sopra le teste boccali di birra appannati, e urlavano arrochiti e pieni d’odio: «Scusi, signore!» Da qualche parte una voce ordinava al megafono: «Un karskij! Due zubrik! Fljaki gospodarskie!!».[4] La voce sottile non cantava piú, ma ululava: «Alleluja!» Il fracasso dei piatti dorati del jazz copriva a volte quello delle stoviglie, che le lavapiatti facevano scivolare in cucina lungo un piano inclinato. Insomma, un inferno.
E a mezzanotte in quell’inferno ci fu una visione. Uscí sulla veranda un bell’uomo in frac, gli occhi neri, la barba aguzza come un pugnale, e con uno sguardo maestoso guardò i suoi possedimenti. Dicevano, dicevano i mistici che vi era stato un tempo in cui il bell’uomo non portava il frac, ma era fasciato da un largo cinturone di cuoio da cui sporgevano le impugnature delle pistole, e i suoi capelli corvini erano stretti da un fazzoletto di seta rossa, e ai suoi ordini navigava nel Mar dei Caraibi un brigantino battente bandiera nera con un teschio.
Ma no, no! Mentono i mistici con le loro lusinghe, non esiste nessun Mar dei Caraibi, non vi navigano filibustieri temerari, non li insegue una corvetta, sui flutti non si stende il fumo dei cannoni. Non c’è niente, e non c’è mai stato niente! C’è un tiglio anemico, c’è un cancello di ghisa e dietro, un viale… Il ghiaccio si scioglie nel secchiello, al tavolino accanto si vedono occhi bovini iniettati di sangue, e ti prende la paura, la paura… Oh numi, numi, voglio del veleno, del veleno!…
A un tratto da un tavolo si levò la parola «Berlioz!!» Di colpo il jazz si sfece e tacque, come se qualcuno l’avesse colpito con un pugno. «Cosa, cosa, cosa, cosa?!!!» «Berlioz!!!» E si misero a dar balzi, e si misero a gettar gridi…
Sí, un’ondata di dolore si slanciò in alto alla terribile notizia della fine di Michail Aleksandrovič. Qualcuno si agitava, gridava che bisognava subito, all’istante, lí per lí scrivere un telegramma collettivo e spedirlo immediatamente.
Ma quale telegramma, chiediamo noi, e a chi? E perché spedirlo? Infatti, a chi spedirlo? A che serve un telegramma, quale che esso sia, all’uomo la cui nuca schiacciata è stretta ora dalle mani di gomma del preparatore e il cui collo è cucito dagli aghi curvi del professore? È morto, e non gli serve alcun telegramma. Tutto è finito, non sovraccarichiamo il telegrafo.
Sí, è morto morto… Ma noi siamo vivi!
Sí, si levò in alto un’ondata di dolore, rimase per un po’, e poi cominciò a decrescere: qualcuno era già tornato al suo tavolino e — prima di nascosto, poi apertamente — bevve un po’ di vodka e mandò giú qualcosa. Infatti non era proprio il caso di lasciare nel piatto le cotolette di volaille! Di che aiuto possiamo essere a Michail Aleksandrovič? Perché rimanere digiuni? Siamo vivi, noi!
Naturalmente il pianoforte fu chiuso a chiave, i suonatori del jazz se ne andarono, alcuni giornalisti tornarono nelle loro redazioni a scrivere il necrologio. Si venne a sapere che Želdybin era arrivato dall’obitorio. Si era installato nell’ufficio del defunto, al piano superiore, e subito si sparse la voce che avrebbe sostituito Berlioz. Želdybin convocò dal ristorante tutti e dodici i membri della direzione, e nel corso della seduta che iniziò immediatamente nell’ufficio di Berlioz, presero a discutere questioni improrogabili circa l’addobbo della sala con le colonne del Griboedov, il trasporto della salma dall’obitorio nella sala, l’ammissione dei visitatori e altri argomenti riguardanti il luttuoso avvenimento.
Il ristorante, intanto, riprese la sua solita vita notturna, e l’avrebbe vissuta fino alle quattro del mattino, ora di chiusura, se non fosse successo qualcosa di assolutamente straordinario, che colpí gli ospiti del ristorante molto piú che la notizia della morte di Berlioz. I primi ad agitarsi furono i vetturini in fila davanti al portone del Griboedov. Si udí uno di loro che, sollevandosi a cassetta, esclamò:
— Toh! Guarda che roba!
Poi presso la cancellata di ghisa si accese una fiammella venuta da chi sa dove, e si diresse verso la veranda. Quelli che sedevano ai tavolini cominciarono ad alzarsi per guardare meglio, e videro che con la fiammella verso il ristorante avanzava un bianco fantasma. Quando raggiunse l’inferriata della veranda, tutti ai tavolini restarono di ghiaccio coi pezzi di sterleto infilzati sulle forchette, e sbarrarono gli occhi. Il portiere, che in quel momento era uscito dal guardaroba per farsi una fumatina, spense la sigaretta col tacco e si avviò verso il fantasma con l’evidente intenzione di sbarrargli la strada, ma non lo fece, e si fermò con un sorriso stupido.
Il fantasma attraversò l’apertura dell’inferriata e arrivò senza ostacoli sulla veranda. Solo allora i presenti videro che non si trattava affatto di un fantasma, ma di Ivan Nikolaevič Bezdomnyj, il noto poeta.
Era scalzo, aveva un paio di mutandone bianche a righe e indossava un camiciotto bianco stracciato, sul cui petto con uno spillo da balia era attaccata un’icona di carta raffigurante un santo sconosciuto. In mano Ivan Nikolaevič reggeva un cero nuziale acceso. La sua guancia destra presentava un’escoriazione di fresca data. Era addirittura impossibile valutare la profondità del silenzio che si fece sulla veranda. Si vedeva un cameriere che lasciava scorrere la birra dal boccale inclinato.
Il poeta alzò il cero sopra la testa e disse forte:
— Salve, amici! — Dopo di che guardò sotto il tavolo piú vicino ed esclamò con afflizione: — No, non è qui!
Si udirono due voci. Una, bassa, disse spietata:
— E spacciato. Delirium tremens.
L’altra femminile, spaventata, pronunciò le parole: