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Non appena essa toccò l’erba umida, la musica sotto i salici si fece piú forte e volò su piú allegro il fascio di scintille dal falò. Sotto i rami dei salici, costellati di teneri, soffici amenti, visibili sotto la luna, sedevano in due file certe rane dal grosso muso e, gonfiandosi come fossero di gomma, suonavano su pifferi di legno una marcia brillante. Pezzetti di legno putrido fosforescenti, appesi ai ramoscelli di salice davanti alle suonatrici, illuminavano gli spartiti, sui musi delle rane guizzava la luce irrequieta del falò.

La marcia era eseguita in onore di Margherita. L’accoglienza che le fu tributata non avrebbe potuto essere piú trionfale. Le diafane ondine interruppero la loro carola sopra il fiume per salutare Margherita agitando delle alghe, e sopra la deserta sponda verdastra risuonarono gemebondi, udibili da lontano i loro auguri di benvenuto. Streghe ignude, balzate fuori di dietro ai salici, si disposero in fila e cominciarono a fare riverenze e a strisciare inchini di corte. Un essere dal piede caprino accorse, si precipitò a baciarle la mano, stese sull’erba un drappo di seta, s’informò se la regina aveva fatto un buon bagno e l’invitò a sdraiarsi e a riposare.

La qual cosa Margherita fece. L’essere dal piede caprino le porse un calice di champagne, essa lo bevve d’un fiato e di colpo il suo cuore si scaldò. Informatasi dove fosse Nataša, le fu risposto che aveva già fatto il bagno ed era volata innanzi sul suo verro a Mosca per avvertire che Margherita sarebbe arrivata presto e per aiutare a preparare la sua toletta.

La breve permanenza di Margherita sotto i salici fu contrassegnata da un episodio. Si udí un sibilo nell’aria e un corpo nero che aveva evidentemente sbagliato la mira, precipitò nell’acqua. Dopo qualche attimo, Margherita si trovò davanti quello stesso grassone-scopettonista, che si era cosí infelicemente presentato sull’altra riva. Era riuscito, a quanto pareva, a fare un salto fino allo Enisej, poiché era in marsina, ma bagnato dalla testa ai piedi. Il cognac gli aveva di nuovo giocato un brutto tiro: atterrando, egli era finito in acqua. Ma anche in questo frangente non aveva perso il suo sorriso e Margherita gli concesse ridendo di baciarle la mano.

Dopo di che tutti si accinsero ad andarsene. Le ondine terminarono la loro danza al chiaro di luna e in esso si squagliarono. L’essere dal piede caprino domandò rispettosamente a Margherita con che mezzo avesse raggiunto il fiume. Saputo che c’era arrivata a cavallo di una spazzola, disse:

— Oh, ma perché? E scomodo! — In un attimo fabbricò con due ramoscelli un bizzarro telefono e richiese a qualcuno di mandare immediatamente una macchina, la qualcosa, infatti, fu fatta in un minuto.

Una macchina aperta, color sauro, piombò sull’isola, solo che al posto di guida, anziché un autista di quelli soliti sedeva un gracchio nero dal lungo becco, con berretto d’incerata e guanti alla moschettiera. L’isolotto rimase deserto. Nel fiammeggiare della luna volarono via dissolvendosi le streghe. Il falò si spense, le sue braci si coprirono di grigia cenere.

Lo scopettonista e l’essere dal piede caprino aiutarono Margherita a salire ed ella si adagiò sul largo sedile posteriore della macchina color sauro. L’auto ululò, diede un balzo, e si alzò fin quasi alla luna, l’isola scomparve, scomparve il fiume, Margherita volò verso Mosca.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

A lume di candela

Il rombo uniforme della macchina che volava alta sopra la terra, cullava Margherita e il chiaro di luna la scaldava piacevolmente. Chiusi gli occhi, essa aveva abbandonato il viso al vento e pensava con un po’ di tristezza alla sconosciuta riva del fiume che aveva lasciato e che, lo sentiva non avrebbe mai piú riveduto. Dopo tutti i sortilegi e i prodigi della sera precedente essa cominciava a indovinare da chi la portavano in visita, ma ciò non la spaventava. La speranza che sarebbe riuscita a riottenere la sua felicità la rendeva intrepida. Del resto, in macchina, non ebbe modo di sognare a lungo questa felicità. Sia che il gracchio sapesse bene il fatto suo, sia che la macchina fosse buona, quando aprí gli occhi dopo un po’, Margherita vide sotto di sé non già le tenebre del bosco, ma il lago tremolante delle luci di Mosca. Il nero uccello-autista svitò in volo la ruota anteriore destra, e subito dopo fece atterrare la macchina in un cimitero completamente deserto nel rione di Dorogomilov.

Dopo aver fatto scendere Margherita, senza che questa gli chiedesse nulla, vicino a una tomba, insieme con la sua spazzola il gracchio rimise in moto la macchina e la guidò dritto verso il burrone al di là del cimitero. Quivi essa precipitò con fracasso, e quivi perí. Il gracchio la salutò rispettosamente portando la mano alla visiera, sedette a cavallo della ruota e volò via.

Subito dopo, da dietro uno dei monumenti sbucò un mantello nero. Una zanna brillò sotto la luna e Margherita riconobbe Azazello. Costui l’invitò con un gesto a sedere sulla spazzola, lui stesso balzò su un lungo spadone, entrambi spiccarono il volo e dopo pochi secondi, senza esser stati scorti da nessuno, atterrarono nei pressi del n. 302 bis, in via Sadovaja.

Mentre i viaggiatori, portando sotto il braccio spazzola e spadone, varcavano la soglia del portone, Margherita notò un tizio in berretto e stivaloni alti che s’annoiava, aspettando probabilmente qualcuno. Per quanto fossero leggeri i passi di Azazello e Margherita, l’uomo solitario li udí e trasalí inquieto, non riuscendo a capire di chi fossero.

Vicino all’ingresso della sesta scala incontrarono un altro uomo straordinariamente simile al primo. E di nuovo si ripeté la stessa storia. I passi… l’uomo si voltò inquieto e si accigliò. Quando la porta si aprí e si chiuse, si gettò dietro le persone che, invisibili, erano entrate, gettò uno sguardo nell’ingresso, ma, naturalmente, non vide nessuno.

Un terzo uomo, che era la copia esatta del secondo e quindi anche del primo, era di guardia sul pianerottolo del terzo piano. Fumava sigarette forti, e Margherita si mise a tossire mentre gli passava accanto. L’uomo che fumava balzò su dalla panca dov’era seduto come se lo avessero punto, si guardò intorno con aria inquieta, si avvicinò alla ringhiera e guardò in giú. Margherita con la sua guida, intanto, era già presso la porta dell’appartamento n. 50. Non suonarono: Azazello, senza far rumore, aprí l’uscio con la sua chiave.

La prima cosa che colpí Margherita fu la tenebra in cui si trovò. Faceva buio come in un sotterraneo, cosicché si aggrappò istintivamente al mantello di Azazello per timore d’inciampare. Ma in quel punto il lume di una piccola lucerna ammiccò in lontananza e dall’alto, e cominciò ad avvicinarsi. Azazello, continuando a camminare, trasse via la spazzola di sotto al braccio di Margherita, e la spazzola scomparve senza mandare un suono nell’oscurità.

Allora imboccarono una scala con certi larghi gradini e Margherita cominciò ad aver l’impressione che non avrebbero avuto fine. La sorprendeva il fatto che nell’anticamera di un comune appartamento di Mosca potesse trovar posto questo straordinario scalone, invisibile, ma ben percepibile. Tuttavia la salita finí, e Margherita comprese che si trovava su un pianerottolo. Il lumicino si accostò e Margherita scorse il volto illuminato di un uomo alto e nero che teneva in mano una piccola lucerna. Coloro che in quei giorni avevano avuto la disgrazia di capitare sulla sua strada l’avrebbero naturalmente riconosciuto subito, anche alla luce fioca della fiammella della lucerna. Era Korov’ev, altrimenti detto Fagotto.

Per la verità, l’aspetto di Korov’ev era assai mutato. La fiammella tremolante non si rifletteva in un paio d’occhiali a molla incrinati, che da tempo avrebbero dovuto esser gettati nel mondezzaio, bensí in un monocolo, anch’esso incrinato, a dire il vero. I baffetti sulla faccia impudente erano arricciati e impomatati, e la nerezza di Korov’ev si spiegava molto semplicemente col fatto che egli era in marsina. Solo il suo petto biancheggiava.

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